Non era «mafia delocalizzata» come sostenevano i difensori, perché «... l’attualità dei rapporti messinesi e la famiglia catanese si coglie ampiamente dall’istruttoria del presente giudizio». È forse questo il nucleo decisionale più evidente nelle motivazioni della sentenza a d’appello per il processo “Beta 2”, che i giudici hanno depositato in questi giorni. Ed è l’argomento-chiave di quanto il collegio decise nel luglio scorso per una delle fondamentali operazioni antimafia degli ultimi anni, la “Beta”, con cui la Dda e i carabinieri del Ros hanno ricostruito l’influenza della in città, direttamente collegati anche per stretta parentela con il clan etneo.
Scrivono adesso i giudici per spiegare la sentenza emessa a luglio, che: «... la consorteria di cui si discute, per quanto autonoma la si voglia considerare, non è certamente “originale” nel senso sostenuto dalla sentenza testé citata. I limiti del territorio di riferimento della cosca Santapaola-Ercolano distano dalla città di Messina qualche decina di chilometri. Escluso che in un ambito di criminalità organizzata possano determinarsi le aree di influenza con rigida sovrapposizione con i confini provinciali, è indiscutibile che la forza di intimidazione del clan catanese è pienamente in grado di manifestarsi anche nella provincia di Messina e nella città capoluogo. Il clan Santapaola utilizza il gruppo messinese per attività da porre in essere fuori dal territorio catanese, senza che ciò comporti la creazione di un’associazione autonoma per la quale possa porsi il problema della prova della forza di intimidazione. I soggetti operanti a Messina, primo fra tutti Romeo Vincenzo, hanno costantemente mantenuto rapporti con la “casa madre” e hanno ricambiato l’autorevolezza criminale derivante da tali rapporti con la costante disponibilità a supportare l’attività della famiglia di origine. Non ci si trova in presenza, pertanto, di una cellula che si stacca da una mafia storica e si organizza per esercitare il potere mafioso in un altro territorio lontano dall’area di influenza della prima, ma di una struttura strettamente collegata con una famiglia mafiosa che opera in area contigua a quella di pertinenza di detta famiglia, avvalendosi della forza intimidatrice che da questa promana».
Ed ancora: «Le risultanze del presente procedimento comprovano tale ricostruzione in linea con quanto i collaboratori di giustizia catanesi avevano dichiarato, riferendosi a un periodo che comincia alla fine degli anni ’80. Costoro non avevano parlato di un gruppo indipendente, ma di una propaggine della famiglia Santapaola-Ercolano che faceva capo a prossimi congiunti di Santapaola Benedetto, tra cui Romeo Francesco, residenti e operanti a Messina. Soggetti che non avevano bisogno di manifestazioni violente o intimidatorie in quanto il rapporto familiare con i Santapaola era di per sé sufficiente per renderli portatori di forza di intimidazione».
I giudici hanno ritenuto che il gruppo non fosse stato mai separato con il clan etneo d’appartenenza ma avesse mantenuto negli anni rapporti sempre costanti.
Il 22 luglio dello scorso anno il collegio presieduto dal giudice Alfredo Sicuro e composto dalle colleghe Maria Teresa Arena e Maria Eugenia Grimaldi, aveva deciso alcuni “sconti” di pena rispetto al primo grado. Aveva assolto Maurizio Romeo dal reato di associazione mafiosa «per non avere commesso il fatto» e Vincenzo Romeo da un'estorsione «perché il fatto non sussiste». Aveva escluso l'aggravante di aver agito col metodo mafioso per il reato di influenze illecite contestato a Nunzio Laganà, infliggendogli un anno di reclusione, e a Vincenzo Romeo, condannato a un anno e quattro mesi. I giudici avevano escluso l'aggravante di aver agito col metodo mafioso nei confronti di Salvatore Parlato, che rispondeva di turbativa d'asta, e lo avevano condannato ad 8 mesi di reclusione e 400 euro di multa. Nessuna aggravante con metodo mafioso era stata decisa in appello anche per i fratelli Antonio e Salvatore Lipari, che erano stati condannati entrambi a 8 anni e 8 mesi di reclusione, così come per Antonio Romeo, a cui erano stati inflitti 8 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione. Infine era stato circoscritto il fatto contestato a Giuseppe La Scala fino al mese di ottobre 2014, e con l'esclusione delle aggravanti la condanna finale era stata di 5 anni e 4 mesi. I giudici avevano poi confermato la pena di otto mesi per il pentito Biagio Grasso.
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