11 Gennaio 2022 Attualità

RICORDANDO ANTONIO PAPALIA: TI SALUTO, BEPPE ALFANO

Ieri, a causa di un male incurabile, è morto il giornalista Antonio Papalia. Antonio è stato un giornalista irriverente, libero come pochi, e per questo isolato, perchè scomodo, nell’ultima parte della sua vita. Stampalibera è stato l’ultimo giornale in cui ha scritto, e di questo ne andiamo fieri. ‘E’ l’unico giornale davvero libero’, diceva. Dal 2017 volle regalarci, e quindi riprendere a scrivere dopo tanti anni, alcuni articoli a cui teniamo tanto e che ripubblichiamo. 

Vogliamo iniziare da quello che scrisse a gennaio del 2018. Una emozionata lettera al giornalista Beppe Alfano, ucciso dalla mafia e dalle istituzioni deviate l’8 gennaio del 1993. Con Beppe condivise gli anni più belli, quella della gioventù’.

 

Ciao Beppe, qualunque cosa tu sia adesso.
Ti scrivo oggi 7 gennaio e non domani 8, perché da domani come al solito ci saranno mille sbrodolamenti che ghirigoreranno intorno alla tua statura.
E ne voglio restare distante.
Nel 1993, quando facendo il cronista sei stato ammazzato, tu eri un giornalista senza tesserino.
Lavoravi anche tu in una Sicilia dove anche in questo campo si veniva e si viene sfruttati, e dove bisogna a volte strisciare davanti a farabutti alcuni dei quali, per i loro ignobili scopi, si improvvisano editori.
Ma tu non strisciavi, Beppe. Collaboravi al quotidiano “La Sicilia” e tesserino non ne avevi, e quando ti hanno ammazzato facevi il giornalista ma per l’Ordine non lo eri.
E pensare che dopo che ti hanno ammazzato, da destra a sinistra passando per il centro, giornalisti e politicanti, e ovviamente l’Ordine dei giornalisti, parlando di te tutti si riempivano e ancora si riempiono la bocca con “il giornalista Beppe Alfano ammazzato dalla Mafia”.
Perfino coloro a cui stavi sulle scatole.
Perché poi finalmente ti fu “concesso”, post mortem, quello stupido tesserino gonfio di polemiche.
Ecco, per tornare un po’ indietro, io quel maledetto giorno lavoravo (si fa per dire) in una televisione che si chiamava “Teletime”, gestita da lasciamo andare chi, per conto di due galantuomini, un politico democristiano che di nome non era cristiano e un costruttore suo compare che nel suo ambiente chiamavano “pedi lordi”.
Perché a Messina non ci siamo mai fatti mancare niente, quanto a sporcizia.
La notizia della tua morte ci sconvolse tutti in redazione.
Il direttore di quel Tg era Giuseppe Ramires.
Giuseppe l’indomani fece uscire il Tg listato a lutto. Preceduto da un requiem.
Grande tristezza.
Perché i giornalisti di Messina cominciavano a sentire il fetore della Mafia, appiccicato dietro al collo, come quelli di Catania e Palermo.
Io però piangevo dentro anche per altri versi, e non lo dissi a nessuno in redazione che tu e io eravamo amici da quando eravamo ragazzi.
Quando ci siamo conosciuti tu avevi qualche anno più di me e tutti e due andavamo ancora a scuola. A Messina abbiamo frequentato per un pezzo le stesse comitive, le stesse estati, si andava a ballare, le serate in terrazza, le ragazze. Bei tempi.
E tanto per dire di te, qualche anno più tardi, chissà perché, mi convincesti a scendere un giorno in un sottoscala di via dei Verdi, perché volevi farmi conoscere alcune persone: era un covo di Ordine Nuovo.
Non ne abbiamo mai più parlato dopo quel giorno, perché avevi capito che effetto mi aveva fatto.
Sì, eri un fascista tu, ma non eri come loro, per questo potevamo essere amici.
Ma voglio lasciare a chi legge un ricordo di te che mi è particolarmente caro perché forse, se allora non ci fossi stato tu, oggi non ci sarei io.
Eravamo ragazzi e le ragazze erano il nostro pensiero principale e quello era un pomeriggio di fine estate.
Con un gruppo di amici ci preparavamo per andare a ballare, appuntamento alla Passeggiata a Mare.
Mentre aspettavamo che ci fossimo tutti e mentre ognuno di noi bombardava di romanticherie la rispettiva ragazza, una pietra arrivò addosso a una di loro, che ovviamente si atterrì.
Poi arrivarono altre pietre accompagnate da parole dirette alle ragazze che non erano proprio complimenti, e a quel punto arrivò la paura.
Noi ragazzi, che eravamo già una decina, cominciammo a indirizzare parolacce verso i cespugli da dove erano state lanciate le pietre, ma da lì dietro spuntarono fuori tre tipacci più grandi di noi, che facendo scattare dei coltelli a molla si avvicinarono minacciosamente.
E a quel punto tutti, ma proprio tutti, se la diedero a gambe.
Mi sentivo perduto, iniziò una colluttazione e ricevetti un colpo di coltello di cui ancora oggi conservo la cicatrice, e con me rimanesti solo tu. Tu solo, Beppe, non scappasti.
«Prendiamo i rami!», mi gridasti.
E allora afferrammo i grossi rami delle palme che erano stati tagliati da pochi giorni e per fortuna stavano ancora a lato delle aiuole, per terra.
E ci siamo difesi a colpi di rami di palma, tanto selvaggiamente che due dei tre sono finiti in ospedale e ci sono rimasti.
Poi è arrivata la Polizia.
Tu eri anche questo Beppe, per me eri soprattutto anche questo.
Che peccato non poterci più rivedere ogni tanto.

 

Chissà se adesso si ritroveranno…