Omicidio Attilio Manca: annunciata istanza della famiglia alla procura di Roma
Avv. Fabio Repici: accertamento sulla sua morte "scompaginerebbe gli equilibri del potere"
La relazione della Commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura sulla morte del giovane urologo siciliano Attilio Manca parla chiaro: è stato un omicidio maturato in contesto mafioso "tra la cosca mafiosa barcellonese e soggetti istituzionali estranei a Cosa Nostra".
Sulla base delle conclusioni dei parlamentari e delle indagini difensive, l’avvocato della famiglia, Fabio Repici, chiederà nei prossimi giorni alla Direzione distrettuale antimafia di Roma di riaprire le indagini.
Una decisione, questa, annunciata ieri alla conferenza tenutasi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati ‘Nuovi elementi sulla morte del medico Attilio Manca’ in cui sono stati presenti la onorevole Stefania Ascari e l'ex deputata Piera Aiello, prime firmatarie della relazione, il legale Repici e la dottoressa nonché consulente della commissione antimafia Federica Fabretti.
Di fatto nella relazione "approvata all'unanimità" ha detto Ascari, vi sono dichiarazioni di "collaboratori di giustizia che di fatto dicevano che si era trattato di omicidio, non di suicidio, e con collegamenti con la mafia barcellonese e addirittura anche con elementi esterni alla mafia".
Collaboratori come Francesco Pastoia, (boss di Belmonte Mezzagno morto in carcere a Modena ufficialmente per suicidio e il cui corpo è stato poi bruciato dopo essere stato trafugato dalla tomba), Biagio Grasso, Carmelo D'Amico e Stefano Lo Verso.
"In tutti questi casi - ha continuato la parlamentare - si parla di omicidio. Noi ci siamo chiesti come sia stato possibile che collaboratori di giustizia, che si sono autoaccusati di delitti gravissimi" e che "sono stati ritenuti credibili e affidabili”, siano stati in seguito non ritenuti credibili in relazione alle dichiarazioni su Attilio Manca.
La commissione nel corso della sua attività ha anche acquisito una quantità notevole di documenti, un compito assai difficile: "Non è stato facile" - ha detto Piera Aiello - "speriamo che la procura riapra il caso. Noi siamo pronti a testimoniare su questo caso, che lo abbiamo vissuto in prima persona, e ci mettiamo a disposizione ulteriormente".
Certamente l'accertamento della verità sulla morte di Attilio Manca "sarebbe già di per sé un risultato così rivoluzionario che comunque scompaginerebbe gli equilibri del potere, gli equilibri giudiziari e qualunque altra cosa" ha detto Fabio Repici. "Naturalmente l'accertamento sull'omicidio di Attilio Manca porterebbe con sé fisiologicamente ricadute nella ricostruzione della storia in relazione alla latitanza di Bernardo Provenzano, sulla quale sappiamo molto ma non sappiamo tutto", ha continuato. "Magari con la verità e la giustizia completa sull'omicidio di Attilio Manca non dico che arriveremo a sapere tutto, ma probabilmente e sicuramente ne sapremo di più e probabilmente sapremo almeno quasi tutto" ha concluso.
Fabio Repici: "La gestione della latitanza di Bernardo Provenzano era nelle mani dei mafiosi di Villabate e di Bagheria"
Nella relazione, come riportato dall'avvocato Fabio Repici, non vi è stata una "separatezza fra la mafia palermitana, il circuito mafioso palermitano che aveva la responsabilità della latitanza di Bernardo Provenzano, e le entità mafiose della provincia di Messina. Con grande acutezza vengono rilevate le connessioni che da ben prima dell'omicidio di Attilio Manca esistevano fra la mafia della provincia di Messina e la mafia provenzaniana 'doc'. Vengono rilevati degli elementi che la magistratura non aveva per nulla preso in considerazione", come ad esempio, "il fatto che nel 2004 e inizio 2005, ci fu un imprenditore messinese che collaborò con la giustizia e che riferì alla magistratura di aver incontrato personalmente Bernardo Provenzano a casa non di un mafioso qualunque, ma del capo di Cosa Nostra della città di Messina che si chiamava Michelangelo Alfano, e che non a caso era originario di Bagheria, cioè della culla mafiosa che ha visto la crescita di Bernardo Provenzano dalla fine degli anni settanta fino a quando si impossessò del comando di Cosa Nostra. Questo elemento è importantissimo perché in realtà si abbina in maniera davvero impressionante con le risultanze che poi vengono fuori anche dagli atti del processo Grande Mandamento. Lì c'è la prova che nel periodo dei problemi di salute di Bernardo Provenzano e nel periodo dell'omicidio di Attilio Manca la gestione della latitanza di Bernardo Provenzano era nelle mani dei mafiosi di Villabate e di Bagheria e di alcuni capi mafia in particolare, fra cui Onofrio Monreale".
"Nella relazione della commissione antimafia - ha continuato il legale - ci sono gli spunti che fanno comprendere come quel circuito provenzaniano in realtà avesse sponde ufficialmente accertate a Barcellona e in provincia di Messina".
Fabio Repici ha sottolineato anche "un dato ufficiale, un dato oggettivo, documentale, che si abbina a quanto già detto. Attilio Manca era uno dei massimi esperti di tumore alla prostata in Italia, nonostante la giovane età; Attilio Manca aveva svolto a lungo la sua attività professionale in Francia; Attilio Manca fra il 18 e il 21 giugno del 2003 fu in Francia in una zona non distante dalle cliniche nelle quali a luglio e a ottobre del 2003 fu ricoverato Bernardo Provenzano. E aggiungo: c'è una strabiliante connessione cronologica fra il rientro di Attilio Manca il 21 giugno del 2003 in Italia, dopo tre giorni di trasferta in Francia indicati da un collega di lavoro che ne aveva avuto notizia" e "l'avvio della pratica amministrativa a nome di Gaspare Troia, la falsa identità con cui Bernardo Provenzano viaggiò verso la Provenza", avviata presso l'ASL di Palermo il 23 giugno, "cioè due giorni dopo il rientro in Italia di Attilio Manca".
Federica Fabretti: “Omicidio è altamente probabile essere collegato con la figura del boss Bernardo Provenzano”
"Gli elementi che sono emersi a seguito dell'inchiesta hanno consentito di ribaltare le conclusioni della relazione di maggioranza della relazione precedente" - ha detto la dottoressa Fabretti - perché la morte è "imputabile ad un omicidio di mafia". Non è stato possibile - ha precisato - chiarire se l'organizzazione mafiosa che ne ha preso parte ha avuto il ruolo di "mandante o di organizzatrice o di esecutrice o più di uno".
Sicuramente, però, si è trattata della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto e "l'omicidio è altamente probabile essere collegato con la figura del boss Bernardo Provenzano in particole alla protezione della sua latitanza".
Quella latitanza che la sentenza di Appello del processo trattativa stato - mafia dice essere stata favorita in modo 'soft'.
Tutto avvenne, si legge nelle motivazioni della sentenza, non perché ci fossero collusioni o "patti" (promesse e benefici) da onorare ma perché i carabinieri del Ros ritenevano che la leadership di Provenzano "avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato".
Un altro elemento che è stato oggetto di profonda indagine dei commissari è stata la figura di Monica Mileti che, secondo la procura di Viterbo avrebbe venduto l'eroina ad Attilio Manca. La donna, ricordiamo, è stata assolta dal Tribunale di Roma "perché il fatto non sussiste".
"Abbiamo posto l'attenzione sulle due utenze cellulari di Monica Mileti che erano intestate ad altre persone - ha continuato - la prima delle quali aveva avuto contatti telefonici con Attilio Manca ed è casualmente sparita tra il primo verbale e il secondo verbale in cui è stata sentita dalla squadra mobile di Viterbo".
Un'altra cosa su cui è stata posta l'attenzione sono stati gli "amici" di Attilio Manca: “Hanno messo a verbale dichiarazioni che suggerivano una tossicodipendenza di Attilio. Queste persone, due in particolare, Ugo Manca e Lelio Coppolino sentiti a verbale dall'autorità giudiziaria all'inizio, subito dopo la morte di Attilio Manca avevano negato la circostanza che il dottore Manca fosse tossicodipendente per fare un'inversione di centottanta gradi nel momento in cui la famiglia Manca anche con delle denunce all'autorità giudiziaria ha iniziato a ipotizzare il coinvolgimento della mafia nella morte del figlio". I commissari hanno anche recuperato una relazione del Ros che riferiva di una "ipotetica permanenza del boss latitante (Provenzano, ndr) in quel momento in un convento di frati minori di Sant'Antonio da Padova di Barcellona Pozzo di Gotto". Una fonte avrebbe rivelato inoltre ad "un carabiniere del Ros di Messina che la latitanza sarebbe stata protetta all'interno di questo convento da un frate" che si chiamava "Salvatore Massimo Ferro”, uno dei “figli di Antonio Ferro capomafia di Canicattì e nipote di Salvatore Ferro, un altro personaggio che era stato individuato come uno dei partecipanti all'incontro che tenne Provenzano nel casolare di Mezzojuso. Quello che poi venne trattato nel processo a carico di Mario Mori e Mauro Obinu", quel famoso processo "per la mancata cattura di Provenzano".
Altro dato di particolare rilevanza è l'esistenza di una intercettazione ambientale del 2003 pubblicata per la prima volta da ANTIMAFIADuemila: i gregari del boss avevano deciso che a quel dottore, "andava fatta una doccia". In altre parole, doveva essere eliminato.
Ma ci fu chi lo uccise una seconda volta, bollandolo dopo la sua morte come un tossicodipendente.
Anche questa menzogna è stata smentita dalla commissione antimafia.
E forse molte altre verranno diradate dalle indagini della Procura di Roma, se e quando ci saranno. Fonte: Luca Grossi - antimafiaduemila.com