23 Luglio 2023 Giudiziaria

Sebastiano Ardita: ”Oggi la mafia è il concorso esterno, cioè il rapporto con i poteri e le istituzioni”

Pubblichiamo l'intervento del procuratore aggiunto al convegno "Parlate di Mafia".

E’ impegnativo partecipare a questo convegno che ha ad oggetto lo stato attuale della lotta alla mafia, a ridosso dell’anniversario di Paolo Borsellino e nel clima infuocato che si respira in questi giorni.

Le evoluzioni di Cosa Nostra sono una delle espressioni, delle modificazioni del tessuto sociale perché la mafia è una realtà che esiste anche nel tessuto sociale. Sono gli strumenti quelli che sono cambiati nel corso degli anni e che hanno prodotto poi le modificazioni che noi oggi vediamo.

Sono passati trentuno anni dalle stragi.

In questi anni abbiamo vissuto la stagione delle grandi riforme giudiziarie, quelle a partire dal 1991 quando Giovanni Falcone era direttore generale del ministero della Giustizia. Dopo le stragi del ’92 queste riforme sono state maggiormente rinsaldate con un assetto che aveva tre presupposti fondamentali: il regime dell’art. 41 bis (la prevenzione penitenziaria); il sequestro dei beni mafiosi e quindi le misure di prevenzione patrimoniale; l’uso strategico dei testimoni e dei collaboratori di Giustizia.

Gli anni a seguire, quelli più recenti, hanno registrato una totale incapacità di comprendere quanto grave e pericolosa fosse quella trasformazione che aveva avuto Cosa Nostra la quale, ovviamente, in esito a quella che fu la risposta nel ’92, visse una sua destabilizzazione e una necessità di organizzarsi in modo diverso nel tessuto sociale.

Abbiamo assistito in questi anni ad un irresponsabile entusiasmo per la vittoria sulla mafia che spara sulle istituzioni, senza tenere conto che Cosa Nostra semplicemente non ha giocato più quella partita. Quindi dire, come si è detto, che lo Stato ha vinto sulla mafia perché la mafia non colpisce più lo Stato è un gravissimo errore. Perché è come esultare per aver vinto una partita contro un avversario fantasma rispetto a questa realtà concreta.

In questi anni, questo stato di cose e queste convinzioni di aver risolto il problema, hanno portato inevitabilmente a quello che tutti noi abbiamo visto. E cioè alla rinuncia a questi strumenti, a un attacco formidabile alla normativa antimafia, al 41bis in primo luogo e più in generale alla prevenzione penitenziaria, alle misure patrimoniali e ai collaboratori di giustizia.

L’effetto è quello di un incredibile arretramento che ci ha riportati indietro agli anni che precedettero le stragi.

La novità è una quantità enorme di denaro sporco che viene reinvestito. Una grande capacità di invasione nelle realtà economiche: oggi si avviano società, si cedono partecipazioni, si assumono mafiosi, in un travaso di risorse verso i poteri illegali che è diventato un travaso massivo. Al punto tale da aver inquinato fortemente l’economia reale.

Teniamo conto del fatto che noi non arriviamo, con le misure di prevenzione, a raggiungere tutto questo travaso nell’economia reale. Anzi diciamo che ci muoviamo su numeri che sono frazionari per una serie di ragioni, per le strettoie di strumenti ma anche per la difficoltà di ricostruire tutto questo. E quindi abbiamo come conseguenza che interi settori dell’economia, non solo i vecchi settori degli inerti, del movimento terra, e dei subappalti, ma anche settori diversi, di forniture, di generi alimentari, di trasporti, del gioco legale che lo Stato ha deciso di realizzare e che ovviamente è finito nelle mani della criminalità organizzata.

Il rischio è che tutti questi settori possano rafforzarsi e far fare un salto di qualità in proiezione. E cioè far diventare la mafia una realtà finanziaria reale.

Per realizzare questo disegno esiste un piccolo esercito di professionisti, di faccendieri e di imprenditori senza scrupoli, pronti a traghettare il denaro sporco verso l’economia reale. Si tratta di soggetti non affiliati che realizzano il disegno strategico attuale di Cosa Nostra. Questo si chiama concorso esterno.

Oggi la mafia è il concorso esterno!

La mafia è il rapporto tra la grande criminalità e i poteri istituzionali. La mafia è una realtà che non vive di sola e autonoma energia ma del rapporto con i poteri forti, e quindi con le istituzioni, con i poteri finanziari, con lo Stato. E quindi hanno ragione quei giovani che gridano “fuori la mafia dallo Stato”. Perché la mafia vive di questo indurimento istituzionale. Se potesse esserci uno slogan, migliore slogan non potrebbe essere che “fuori la mafia dallo Stato”. Eppure quei giovani sono stati fermati coi manganelli. Che è esattamente ciò che è accaduto ai ragazzi del Fronte della Gioventù il 12 settembre 1982 nella prima grande manifestazione antimafia avvenuta in Piazza Politeama a Palermo dopo 9 giorni dall’omicidio del generale dalla Chiesa per aver invocato che la mafia uscisse fuori dallo Stato.

E’ un eterno ritorno quello di chi chiede e denuncia che ci sia un muro che separi le istituzioni da un mondo diverso. Ma questo è un ragionamento che dobbiamo guardare anche in termini non soltanto ideali, che possono sembrare propagandistici, ma in termini funzionali.

Noi rischiamo oggi la trasformazione della mafia in potere finanziario. Con tutto quello che comporta. Il potere finanziario in Italia controlla i giornali, ha un rapporto organico con la politica, sempre più diversa da quella che era un tempo dove esisteva un netto muro di separazione anche rispetto alle carriere e alle vocazioni pubbliche.

E quindi pensare di abolire il concorso esterno sarebbe un atto sconsiderato sul piano politico-criminale ma anche su quello giuridico perché il concorso esterno è un’applicazione dell’articolo 110 del codice penale. Se si dovesse modificare il 110, dovrebbe anche modificarsi e rendersi impossibile il concorso del basista nella rapina, quello del mandante in un omicidio. E’ complesso operare sul concorso esterno. Lo si dovrebbe fare tipizzando il concorso esterno. Il concorso esterno è in questo momento oggetto di un’interpretazione minimalista da parte della Cassazione. Un’interpretazione che lo riduce al minimo perché la responsabilità è enorme della giurisprudenza di stabilire la soglia del concorso esterno. Se lo si tipizzasse aumenterebbe la possibilità di essere coinvolti nella fattispecie di concorso esterno. Quindi è difficile dal punto di vista giuridico e sarebbe sconsiderato dal punto di vista delle politiche criminali abolirlo. D’altra parte si sente dire che il concorso esterno condiziona la classe dirigente. Io ritengo francamente quest’affermazione infondata. Io dico che una classe dirigente con la schiena dritta, distante dai soldi facili e dai rapporti con la mafia non ha niente da temere dal concorso esterno.

Quanto detto finora è la cornice della sostanza in cui troviamo lo stato della prevenzione penale e quindi della lotta alla mafia. Uno degli specchi che ci fornisce un po’ il livello a cui è arrivata la lotta alla mafia sono le carceri.

Le carceri sono purtroppo fuori dalla attenzione pubblica, fuori dalla conoscenza oltre che dal governo e dalle Istituzioni, sono allo sbando.

Perché nelle carceri si sta verificando qualcosa che è un unicum nella storia democratica del nostro Paese. Nelle carceri ci sono due ordinamenti. Nelle carceri di tutto il mondo, in quelle civili e in quelle incivili, un ordinamento è quello dello Stato, delle leggi penitenziarie. L’altro, è quello che nell’istituzione totale carcere, i detenuti danno a sé stessi quando manca lo Stato. Allora accade che un carcere è civile quando lo Stato è presente nella massima estensione possibile. Più è presente lo Stato, meno è presente il governo della mafia. Nel nostro sistema, qualche anno fa, si è pensato di fare arretrare la presenza dello Stato: si è dato ordine di aprire le celle, di fare uscire gli agenti dalle stanze di detenzione. Dunque l’ordinamento subalterno, sostitutivo, della mafia si è diffuso. Questo ha comportato che le carceri si sono trasformate in centri di controllo telefonico e telematico delle attività criminali (ogni anno vengono sequestrati centinaia se non migliaia di telefoni, e però ogni volta che qualcuno, specialmente di mafia, entra in carcere, la prima dotazione che riceve da parte dell’organizzazione criminale è un telefono).

Tutto questo avviene nel silenzio assoluto. Abbiamo visto anche cosa è accaduto recentemente con un’operazione importante di polizia a Opera in cui si definisce il carcere di Opera una centrale di spaccio. Cioè le carceri diventano succursali dei quartieri in cui Cosa Nostra ha sostanzialmente il proprio dominio. Tutto questo caos introdotto nel corso degli anni ma che non esime chi ha una responsabilità da inseguire, anche fosse solo da un giorno, credo che sia necessario intervenire in questo settore.

Questo caos non ha nulla a che vedere con la civiltà della pena perché se è vero che i detenuti devono essere trattati come esseri umani essi - per usare Le parole che Yourcenar mette in bocca all’imperatore Adriano - “devono essere resi inoffensivi a forza di bontà, purché sappiano che la mano che li disarma sia ferma”. Ecco noi possiamo dire oggi che la mano dello Stato non è ferma nelle carceri. La mano che disarma i poteri criminali non è ferma. D’altra parte il sistema delle pene non trattiene. Guardando le statistiche di qualche anno fa, è stabilmente sotto i dieci anni la presenza effettiva in carcere di coloro i quali commettono omicidio volontario. E si è attenuata nettamente in questi ultimi anni. Chi ha trent’anni di servizio come me assiste alla terza tornata di crimini commessi da mafiosi che sono stati arrestati negli anni ’90, condannati e scarcerati a fine pena, poi riarrestati, ricondannati e riscarcerati. E adesso sono alla terza tornata di reati. Io penso che a un cittadino, ai famigliari di Renato Caponnetto, che è un imprenditore che è stato ucciso a Catania dopo che il suo assassino era stato condannato per aver ucciso sei persone, è difficile spiegare perché questo sia potuto avvenire. E il tema caldo è quello delle riforme penali che, mi dispiace dirlo, sono completamente fuori misura da sempre. Riforme che purtroppo negli ultimi tempi hanno veramente dato la sensazione di una mancanza di comunicazione fra tecnici e coloro i quali hanno la responsabilità di adottare decisioni normative. Sono anni oramai che sotto il nome pomposo di riforma della giustizia vengono adottate singole modifiche normative che riguardano settori specifici, se non norme specifiche del codice penale e del codice di procedura penale che talvolta vengono taciuti sull’onda emotiva di fatti tra loro contingenti. A volte si tratta di modifiche, per esempio, alle pene edittali che sono modifiche totalmente inutili. Si portano con grande interesse ed entusiasmo in Parlamento modifiche per aumentare le pene edittali ma bisognerebbe sapere che c’è una norma nel nostro codice penale che prevede che la pena che si sconta è unica. Esiste il cumulo giudico delle pene per cui se io prendo 30 anni per un fatto, poi ipoteticamente altri 30 per un altro fatto, e ancora 30. 30+30+30 fa sempre 30. E’ il sistema della tenuta della pena che non funziona. Quindi non serve aumentare le pene per i reati. Il nome pomposo della riforma della giustizia viene dato a modifiche che sinceramente negli ultimi anni hanno messo in ginocchio la macchina della giustizia. Io parlo con una prospettiva tecnica, non mi interessa sapere quale governo o Parlamento ha adottato o promosso tali modifiche. Per esempio da poco tempo, con la riforma Cartabia, occorre mettere giù gli atti e le carte con le indagini che si sono fatte ma siccome nelle indagini di mafia a volte vengono emesse richieste cautelari dopo un anno di indagine e il gip ci mette un altro anno per decidere, naturalmente questo tempo non basta, occorrerebbe far discovery e far vedere agli indagati gli atti con cui li si sta per arrestare. E allora c’è una norma che prevede che il procuratore della repubblica possa chiedere al procuratore generale di autorizzarlo ad allungare questi termini. Quindi il procuratore Generale dovrà guardare questi atti, decidere se emettere un provvedimento ma comunque ciò ha un limite massimo. Insomma si è introdotta della burocrazia nel sistema giudiziario che rispetto quantomeno a quello che succedeva prima, ovviamente sottrae tempo alle indagini, all’attività investigativa e alla ricerca dei colpevoli. Questo è un dato assolutamente pacifico. E purtroppo si sono fatte anche altre riforme che hanno presupposti più organici come la giustizia riparativa che così come è concepita, anche se è una cosa seria, cioè con soli vantaggi per gli autori di reati e nessun vantaggio di nessun tipo per le vittime di reato, sinceramente non convince. E’ estesa anche ai mafiosi, può essere chiesta dopo il primo giorno di arresto: lo stupratore o l’estortore potrebbero chiedere di incontrare le vittime in costanza di indagini cioè mentre ancora la sua posizione è al vaglio del giudice cautelare. Sono riforme che sono mancanti di organicità, di respiro complessivo, di valutazione delle risorse, di calcolo dei tempi. Riforme adottate senza guardare le statistiche dei reati, della permanenza media in carcere, della durata dei processi. Adottate purtroppo con una disarmante semplicità, senza studio e senza valutazione degli interessi pubblici complessivi, con un metodo che se venisse applicato nel settore privato porterebbe ad immediate azioni di responsabilità ma purtroppo questo non esiste.

La conoscenza degli effetti devastanti di queste riforme a volte anche dalle attività investigative. Ma questo oggi è difficile possa accadere perché sono state approvate leggi che pongono uno sbarramento alla conoscenza dei cittadini, anche rispetto a fatti che sono rilevanti. E soltanto una porzione di questa riforma riguarda i diritti individuali. Una porzione più importante riguarda la conoscenza dei meccanismi di funzionamento della giustizia nel nostro Paese. La riforma Cartabia ha messo alla prova la tenuta del sistema della prevenzione criminale. Ci aspettavamo che fosse modificata, ed invece adesso abbiamo l’annuncio della riforma Nordio che tra le altre cose prevede l’idea di un tribunale collegiale per le misure cautelari rispetto al quale l’indagato, per il quale viene chiesta la misura, viene avvisato che deve essere interrogato e ciò comporta un problema che riguarda l’incompatibilità tra giudici e quindi rischia paralizzare i tribunali. E poi vi è un rapporto di fondo con la verità che in questo momento la giustizia deve riconquistare. Ci sono questioni che vanno affrontate anche se sono dolorose e vanno affrontate tutte intere. La questione delle carceri, la questione del processo penale. Questioni che a mio avviso vanno approfondite dagli organi istituzionali. Sullo sfondo c’è anche il problema del rapporto politica-giustizia che vi dico francamente dal mio punto di vista poggia su basi infondate. Non è questa la sede per parlarne fino in fondo, ma vi assicuro che assistere a volte ad attacchi come quelli subiti dal mio amico e collega Nino Di Matteo, quelli per lo svolgimento delle sue funzioni, non sono uno spettacolo piacevole. I cittadini non capiscono, non comprendono e sono confusi rispetto a questa realtà perché non gli si può dire in questo momento che gli strumenti sono perfettamente funzionanti. Io vi dico che c’è qualcosa di più importante degli strumenti per combattere la mafia, e questo è la passione che è il motore che muove l’uomo investito di funzioni pubbliche. Quello che in questo momento sinceramente vorremmo è che non passi a molti magistrati che ancora ne hanno voglia, il desiderio di svolgere fino in fondo il proprio dovere. Perché dietro queste riforme, l’inerzia rispetto alla situazione criminale delle carceri, le polemiche e il conflitto coi magistrati, si annida il rischio di cancellare quello che è poi alla fine il nostro impegno, facendoci sentire un po’ corpi estranei. Esiste il pericolo concreto che si formi una classe piena di magistrati burocrati, attenti solo a non commettere errori, che rifuggono dai propri doveri istituzionali. Sarebbe questa una sciagura non per la magistratura ma per il popolo italiano, il fallimento di quel modello ideale che Paolo Borsellino ci ha lasciato in eredità. Ma nonostante tutto questo io credo che noi abbiamo il dovere di crederci ancora, di provare ad essere degni di chi ci ha preceduto, di affrontare tutti i rischi che comporta l’amore per la nostra nazione. Vogliamo sperare di poter sentire, ancora una volta, il fresco profumo della libertà.