La riflessione del movimento Antudo: «Il Ponte è uno strumento di aggressione ai territori»
«L’estrattivismo è una forma di accumulazione del capitale finanziario attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni per convertirli in beni di consumo... Nell’estrattivismo intere popolazioni sono ostacoli che devono essere rimossi per lasciar spazio, per esempio, alle miniere a cielo aperto, alle monoculture, come la soia, o alle grandi opere infrastrutturali. Ci troviamo di fronte non solo a un modello economico, ma a una vera e propria società estrattiva, che implica una militarizzazione del territorio». Lo scrive Raul Zibechi, giornalista e scrittore uruguaiano. Il movimento “Antudo” riprende la riflessione di Zibechi e la rapporta a quanto sta accadendo nella vicenda che riguarda lo Stretto: «Stavolta, il progetto per la costruzione del Ponte è connotato dall’accostamento all’aggettivo “sostenibile”, utilizzato per giustificare la circolazione incontrollata di capitali attraverso un modello di sviluppo estrattivista, fondato sull’aggressione ai territori, l’estrazione di profitti dalla terra e dalle biografie dei suoi abitanti. Un modello che non prevede alcun processo di confronto con le comunità dei territori e che bypassa persino le amministrazioni locali: i sindaci, per esempio, che non toccano palla nei processi che si sviluppano attorno alle grandi opere e vengono anzi spesso assorbiti dal meccanismo dagli interventi collaterali e compensativi». Secondo “Antudo” va “demistificata” la narrazione sul Ponte. «Ciò che appare evidente è come il “dispositivo Ponte” serva a legittimare l’impianto ideologico sviluppista, una macchina di consenso e spesa intorno a qualcosa che probabilmente non esisterà mai. Un vero e proprio metodo, basato sulla “non fattibilità” di opere pubbliche e infrastrutture, in cui lungaggini burocratiche, dibattito politico drogato e permanere di grandi interessi che giustificano la necessità di apertura dei cantieri diventano elementi funzionali a un processo che mira in realtà all’indirizzamento dei flussi finanziari, all’orientamento del consenso, alla gestione del territorio». E, dunque, occorre «decolonizzare l’immaginario»: «Il Ponte sullo Stretto è emblematico di questo tipo di gestione politica, con la diffusa cantierizzazione e il collaterale supporto militare a difesa della stessa. Il carattere estrattivista dell’opera si palesa inoltre nella scientifica e sistematica creazione di conflitti all’interno delle comunità, tra gli abitanti che subiscono l’impatto negativo dei lavori e le categorie che vengono invece cooptate all’interno dell’iter di progettazione e costruzione». Siamo di fronte, secondo “Antudo”, a due modelli antitetici. «Uno, che ammicca a un progresso senza limiti, all’innovazione senza indugi, all’aggressione della tecnica sulla natura come unica prospettiva di crescita, e un altro che riconosce il fallimento del sistema sociale ed economico attuale, che vuole ripensare il rapporto dell’uomo con la natura, mettere al centro il patrimonio relazionale e paesaggistico, riportare nella discussione la possibilità di decisione degli abitanti in base alle loro necessità. Un investimento così massiccio come quello del Ponte, calato dall’alto, su un territorio che non potrebbe beneficiarne in alcun modo, va esattamente nella stessa direzione delle politiche degli ultimi cento anni, che hanno fondato il paradigma dell’arretratezza, dell’indebitamento, dello smantellamento dei servizi essenziali di questo territorio. In gioco non c’è solo quest’opera inutile, ma un intero paradigma socio-economico da destrutturare».