15 Settembre 2023 Giudiziaria

«Prigioniero del suo segreto». Depositate le motivazioni della condanna per il 59enne Luigi De Domenico

Di Nuccio Anselmo – Prigioniero del suo inaccessibile segreto. Quando le parole giudiziarie di una sentenza danno il senso della condanna. Quel “prigioniero” è il 59enne Luigi De Domenico, il cosiddetto “untore”, a giugno condannato per la seconda volta a 22 anni di carcere con l’accusa di omicidio volontario dopo l’annullamento del primo processo. L’accusa è quella di aver contagiato la sieropositivtà da Aids alla compagna, l’avvocata 45enne S.G., che poi morì non sapendo come curarsi. De Domenico – lo ha stabilito la sentenza -, non le disse mai di essere sieropositivo.

Adesso sono state depositate le motivazioni di quella sentenza, in tutto sono ben 203 pagine, le ha scritte il presidente della corte d’assise che l’ha giudicato, la giudice Letteria Silipigni.

E in un passaggio, verso la fine, quando come in ogni sentenza si parla del trattamento sanzionatorio, che la giudice enuclea questo concetto dopo aver passato in rassegna tutte le prove che lo incastrano per la morte dell’avvocatessa, un passaggio che forse riassume in poche righe l’intera vicenda, e l’intero processo. Eccolo: «Prigioniero del suo inaccessibile segreto, il De Domenico ha continuato indisturbato a intrattenere rapporti sessuali non protetti con le successive compagne che si sono avvicendate nella sua vita, ponendone a rischio la incolumità personale e finendo per contagiare una di esse (la …) e allorquando ha appreso le gravi condizioni di salute in cui si trovava S., ha erto un castello intriso di bugie e silenzi, privando cosi la madre di suo figlio di una possibilità di salvezza e condannandola definitivamente a morte. Anche sul versante soggettivo, pertanto, benché le condotte ascrittegli siano collocabili nell’alveo della categoria del dolo eventuale, non può fare a meno di considerarsi come l’atteggiamento psicologico dell’imputato, proprio nei frangenti coevi e immediatamente successivi alla comparsa dei primi sintomi in capo alla G., si sia assestato su una più pervicace, convinta e mai rivisitata adesione al verificarsi dell’evento lesivo. Addirittura, l’imputato, dopo la morte per Aids della ex compagna, giungeva finanche a mistificare la realtà, negando il suo stato di sieropositività e attribuendo la causa del decesso della donna a discutibili comportamenti sessuali della stessa».

Ma torniamo indietro. Nelle prime pagine il magistrato affronta il tema della “causa della morte”, certamente l’Aids, e la sentenza mette in risalto tutte le gravi incongruenze dei due consulenti (Di Stefano e Berlich) con tesi definite a tratti «timide ed assertive», e con un «approccio eccessivamente parziale», a fronte invece delle articolate ed esaustive argomentazioni poste dai consulenti della parte civile, le dottoresse Mussini e Ceccherini.

Ma l’accertamento dello stato di positività del De Domenico, attraverso attività investigativa prima e dibattimentale poi, la sentenza dice che è stata «molto complessa», dando anche atto tra le pagine del contributo fornito dalla sorella della vittima sul passato di De Domenico, e sulla “scoperta” della sua relazione, risalente ai primi anni 90, con una donna sieropositiva poi morta per Aids nel 1996.

La sentenza si sofferma poi sui molteplici elementi emersi, sia in sede d’indagine sia in sede dibattimentale, dai quali emerge che De Domenico era sieropositivo certamente dagli anni 90, e valorizza il suo riserbo assoluto sulla propria sieropositività persino dopo la morte della compagna.

Dopodiché vengono valorizzati gli elementi dai quali emerge l’assoluta consapevolezza che il De Domenico aveva di essere sieropositivo, e la conseguente spregiudicatezza nel continuare ad avere rapporti non protetti con molteplici partner, pur quando ancora non era in cura e quindi la carica virale non era azzerata.

E nelle pagine successive si sofferma anche sul comportamento soprattutto di due partner, mosse da un forte “spirito di protezionismo” nei suoi confronti dello stesso, nonostante una di loro sia stata contagiata (la sentenza di condanna è riferita anche per il reato di lesioni per una di queste donne, per la quale già il primo processo aveva determinato la trasmissione degli atti alla Procura, perché sono emersi profili di falsa testimonianza; questa corte di assise ha poi trasmesso gli atti alla Procura per l’altra partner, sempre per falsa testimonianza).Viene poi stigmatizzato il comportamento dell’imputato, che tenta in tutti i modi di screditare una teste che ha avuto una relazione con lui.

In un altro passaggio la sentenza mette in risalto la grande importanza del cosiddetto test filogenetico sul dna di entrambi: in questo secondo processo si è andati oltre la prova che appartengono ad uno stesso ceppo, qualificando quello del De Domenico come “ancestor”, quindi più antico rispetto a quello della vittima.

E quanto si entra nella valutazione del cosiddetto “compendio probatorio” il riferimento è al «tragico destino» che accomuna la vittima con l’altra donna contagiata, che sono «marchiate a vita dall’indelebile traccia del contagio». Soltanto la seconda riuscirá a sottrarsi alle più terribili conseguenze della contrazione del virus, mentre la G. sarà destinata, dopo un angoscioso calvario durato due anni, a subire il più drammatico dei destini, andando incontro a morte, tra mille stenti e sofferenze».

Un processo già cancellato una prima volta. 

Il 13 giugno di quest’anno il 59enne Luigi De Domenico è stato condannato a 22 anni di carcere. È stata la sentenza al processo bis per il cosiddetto “untore”, decisa dalla corte d’assise presieduta dal giudice Lia Silipigni, che ha scritto le motivazioni di questa seconda sentenza, con a latere il collega Domenico Armaleo. È il procedimento a carico del 59enne Luigi De Domenico, accusato di omicidio volontario per la morte della sua compagna, a cui contagiò la sieropositività senza mai rivelarlo. La vittima è l’avvocata messinese 45enne che poi morì di Aids, proprio perché non si riuscì a curare sconoscendo la causa della sua malattia. Il pm Roberto Conte aveva chiesto la condanna a 25 anni. I legali di parte civile per i familiari della vittima, sono stati gli avvocati Bonni Candido ed Elena Montalbano, mentre l’avvocato Carlo Autru Ryolo ha difeso De Domenico. Secondo giudici e giurati De Domenico è stato responsabile di omicidio per la morte della compagna. Ed è la seconda volta che una corte d’assise lo stabilisce. Si tratta del processo bis perché il primo (che aveva visto la condanna sempre a 22 anni per l’uomo) ha registrato l’annullamento in appello nel dicembre scorso per la vicenda dei giurati che componevano la corte e avevano superato i 65 anni d’età sollevata a suo tempo dall’avvoato Autru Ryolo. Una problematica che è stata poi superata da un pronunciamento della Cassazione su un caso analogo avvenuto a Palermo in un processo di mafia. I giudici della Cassazione hanno deciso infatti che per i giurati che compongono le corti d’Assise è il momento della designazione che conta per il requisito dei 65 anni, e non quello del momento della sentenza. Fonte: Gazzetta del Sud