28 Marzo 2024 Giudiziaria

Processo Agostino, Repici: ”Nel 1989 il ‘Deep State’ occultò la verità sul caso”

L’arringa dell'avvocato di Vincenzo Agostino chiude il dibattimento delle parti civili. Prossima udienza 12 aprile.

di Jamil El Sadi - “In questo processo la locuzione ‘Deep State’ assume le sfumature più variegate che vanno ben oltre quello che in qualunque processo ci si sarebbe potuti aspettare. Dall'istante dopo l'omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio, la squadra mobile di Palermo, nella persona del suo responsabile, Arnaldo La Barbera, ma non solo, ha depistato in modo scellerato le indagini, inventando una causale che definire farlocca è poco”.
A parlare è l’avvocato Fabio Repici nella sua arringa difensiva davanti alla Corte d’Assise di Palermo presieduta da Sergio Gulotta (a latere Monica Sammartino) nell’ambito del processo sul duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie incinta Ida Castelluccio, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini.
Un procedimento che vede sul banco degli imputati il boss dell’Acquasanta Gaetano Scotto e il sedicente amico d’infanzia di Nino, Francesco Paolo Rizzuto, rispettivamente accusati di duplice omicidio aggravato in concorso e di favoreggiamento.
La procura generale nelle scorse settimane ha chiesto l’ergastolo per Scotto e l’assoluzione per Rizzuto. Con l’udienza di ieri si sono concluse le parti civili.
Repici è il legale di Annunziata e Flora Agostino (sorelle di Nino) e dei genitori: “La mai abbastanza compianta Augusta Schiera e Vincenzo Agostino, costretto a una tenacia granitica e insostenibile per chiunque altro al mondo” a causa della tragedia che li ha investiti.

L’udienza si è contraddistinta per il suo “carico morale”: il ricordo di Schiera Augusta; l’assenza di Vincenzo Agostino per motivi di salute; suo nipote Nino Morana seduto nella tribuna instancabilmente per fare le veci del nonno; e quel debito di verità e giustizia ancora da sanare.
Quando si tratta di delitti di così imponente rilievo “C’è sempre un ‘gomitolo di concause’, uno ‘gnommero’ come scrisse Carlo Emilio Gadda - ha detto Repici -. E fra questa pluralità di causali dell'omicidio c’è sicuramente l'attività che l’agente svolgeva fuori dai compiti di istituto. Ovvero la ricerca di latitanti, in un circuito a metà strada fra investigazione e intelligence”. Un contesto ibrido in cui, nella tragica Palermo del 1989, “per non saltare in aria in un campo minato era necessario operare nascosti e con prudenza”, come “dimostrano plasticamente il poliziotto Antonino Agostino e il magistrato Giovanni Falcone, i cui destini sono strettamente legati”.

Operazione depistaggio

Prima di addentrarsi nella sua arringa, Repici ha ricostruito il contesto in cui è avvenuto il duplice omicidio Agostino-Castelluccio, “perché c'è un pensiero negazionista che pensa che si possono ricostruire i crimini fuori dal contesto temporale nel quale sono stati commessi”. Il 1989 è stato un anno significativo per la storia della Sicilia e del Paese tutto. Salvatore Contorno, già collaboratore di giustizia nel maxiprocesso e in seguito trasferito in America, viene arrestato in Sicilia nel bel mezzo di una guerra di mafia. Pochi giorni dopo, cinque lettere anonime accusano Falcone di aver favorito il suo rientro e di averlo armato per commettere dei veri e propri “omicidi di Stato”. Successivamente c’è il fallito attentato all’Addaura attribuito da Falcone a “menti raffinatissime”. E, appunto, il duplice omicidio di Villagrazia di Carini.
In qualunque delitto, se le vittime potessero parlare in modo postumo, “il raggiungimento della verità sarebbe semplice”. E per impedire che ciò avvenga è necessario “occultare la verità sul delitto, cancellando la voce delle vittime - ha detto Repici alla Corte -. Non è accaduto solo per Nino Agostino. Nei delitti del potere quasi sempre si ricorre alla distruzione di ciò che è stato lasciato dalle vittime perché si venisse a conoscenza della verità”. E anche in questo caso è accaduto.

Fin dall’inizio, infatti, quando i corpi esanimi di Nino e Ida erano ancora caldi, la squadra mobile di Palermo, diretta da Arnaldo La Barbera - poi divenuto famoso alla cronaca giudiziaria per il depistaggio della strage di via d’Amelio - ha messo in moto una macchina depistatrice “scellerata”. “E ciò è stato fatto con la forza degli scarponi chiodati, abbattendo tutto - ha sottolineato Repici -. Subito dopo l'omicidio il capo della polizia, il prefetto Vincenzo Parisi, ‘urbi et orbi’ disse con dichiarazione pubblica che quell’esecuzione era da ricollegare all’attività che quel poliziotto svolgeva fuori dai suoi incarichi di istituto e che riguardavano la ricerca dei latitanti. Questa cosa la dissero le due autorità massime della gerarchia alla quale apparteneva Nino Agostino: il capo della Polizia, che si precipitò da Roma a Palermo trascinando con sé anche il Ministro dell'Interno, e lo disse anche il questore, cioè il capo della Polizia della città di Palermo, il dottor Masone”.
Secondo Repici, piuttosto che di Deep State, “probabilmente dobbiamo parlare di potere reale, potere concreto” perché “davanti ai nostri occhi è apparso che il dirigente della squadra mobile presso la questura di Palermo abbia imposto il suo disegno criminale contro la volontà del capo della polizia e del questore. Una cosa che non si è mai vista prima”.
In questo processo, inoltre, “abbiamo dovuto fare i conti con un altro aspetto della realtà, e cioè che ‘Deep State’ alle volte, anzi soprattutto nella Sicilia del 1989, era anche la condizione a cui erano costretti uomini fedeli alle istituzioni - ha continuato Repici -. Ci sono stati degli esponenti dello Stato che, per fare ciò che rientrava nell'interesse della collettività e nei propri obblighi istituzionali, ha dovuto operare fuori dalle linee formali del potere e perfino della legge”.

Falcone disse: “Questo delitto è stato compiuto contro di me...”

Nella sua lunga ricostruzione, l’avvocato ha sottolineato come l’agente Agostino non fosse solo “un piantone” come certi soggetti lo hanno definito. “Sono plurime le prove del rapporto che Agostino ebbe con Falcone negli ultimi mesi della sua vita”. Falcone all'ex dirigente del Commissariato di San Lorenzo – presso il quale Agostino prestava servizio -, il dottor Saverio Montalbano, disse: “Questo delitto è stato compiuto contro di me e contro di te”. “Lo ha testimoniato de relato anche Vincenzo Agostino - ha ricordato Repici -. Giovanni Falcone gli disse di dovere la vita a quelle due bare”. Non solo. Falcone “scelse” anche di recarsi al funerale il 7 agosto 1989. E lo fece “‘En plein air’, davanti a tutti – ha precisato Repici -. Un dato clamoroso rispetto a ciò che volevano far credere di Nino Agostino, il piantone del commissariato San Lorenzo. Cosa vuol dire questo? Che noi il 23 maggio del 1992 abbiamo perso uno dei principali testimoni di questo processo”.

Falcone però non era uno sprovveduto. Magistrato principe della lotta a Cosa nostra, era ben consapevole di essere nel mirino di un sistema di potere colluso con la mafia. Per questo motivo, come Agostino, decise di lasciare alcuni messaggi. Il 10 luglio ’89, infatti, uscì sul quotidiano L’Unità un’intervista a firma di Saverio Lodato, in cui il magistrato commentava le “menti rafinatissime” dietro l’attentato all’Addaura. “Le date sono importanti - ha precisato Repici -. Sono passati 20 giorni dal fallito attentato. Nino Agostino e Ida Castelluccio sono in viaggio di nozze in Grecia. E manca meno di un mese alla loro uccisione”. Che Giovanni Falcone sapesse che quell'attentato “fosse stato realizzato dal mandamento che comprende il territorio dell'Addaura è pacifico - ha continuato l’avvocato -. Quindi sapeva che (nell’intervista, ndr) stava commentando un attentato commesso nel mandamento di Resuttana”.

Falcone mi fece il nome di… Bruno Contrada

È un dato oggettivo che Falcone volesse rilasciare quell’intervista. Anzi, la cercò. Sentito in questo processo in qualità di testimone, Saverio Lodato ha ricostruito la vicenda sottolineando che fu proprio il magistrato a sollecitarlo. Oltre all’attentato all’Addaura, ci furono le lettere del Corvo che gettarono fango su Falcone. “Una cosa era uccidere l'eroe insospettabile, altra cosa è uccidere l'eroe mascariato”, ha detto Repici. E in quel periodo “c’era un coro che funzionava in perfetta sintonia fra uomini di Cosa nostra e uomini che indossavano divise e anche toghe”. E in quel contesto “non fu il giornalista a cercare il personaggio famosissimo, ma il personaggio famosissimo, e molto malmesso, che chiamò il giornalista - ha precisato l’avvocato -. E in quella intervista Falcone disse: ‘Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che questo sia lo scenario più attendibile se si vogliono capire le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi’”. “Queste parole le farei leggere ai tanti negazionisti che ciarlano quotidianamente appena qualcuno indica le prove di contiguità fra esponenti delle istituzioni e mafiosi in carriera”, ha commentato Repici. Il riferimento era “al mandamento di Resuttana – ha detto Repici -. Lodato, inoltre, ha esplicitato ciò che sapevano tutti: cioè che con quella locuzione Giovanni Falcone parlava del dottor Bruno Contrada a proposito dell'attentato all’Addaura”.

Francesco Paolo Rizzuto, se adulto, sarebbe stato accusato di concorso in omicidio

Dopo aver ricostruito il contesto dentro il quale è stato commesso il duplice omicidio, Fabio Repici ha rivolto la sua attenzione sugli imputati. A partire da Francesco Paolo Rizzuto, che all’epoca del duplice omicidio aveva sedici anni. “Paolotto”, come si faceva chiamare, e Nino Agostino si conoscevano bene e la notte prima dell’esecuzione avevano trascorso la serata a pescare per poi pernottare in casa dell’agente. Rizzuto quel 5 agosto chiese con insistenza ai familiari di Agostino “ma quando arriva Nino”, per poi allontanarsi all’improvviso. Lui è accusato di favoreggiamento aggravato. La procura generale, però, ha chiesto l’assoluzione anche se, secondo il sostituto procuratore Umberto De Giglio, “ha dichiarato il falso” in ordine a quanto accaduto nel giorno e nel luogo in cui fu commesso il delitto - al quale avrebbe addirittura assistito secondo il pentito Francesco Marino Mannoia - e in generale, su quanto a sua conoscenza. Falsità che avrebbe reso in un verbale di sommarie informazioni del 9 agosto 1989.
Sui fatti del 5 agosto ’89 Rizzuto verrà risentito diversi anni dopo sulla base di intercettazioni raccolte dagli inquirenti, il 22 febbraio 2018. Ed è qui che secondo l’avv. Calogero Monastra, legale di Salvatore Agostino (fratello di Nino), intervenuto nella scorsa udienza, sussiste la reticenza dell’imputato. L’avvocato, infatti, ha ritenuto configurabile il delitto così come contestato nel capo di imputazione e commesso in data 22 febbraio 2918 “quando sentito in qualità di persona informata sui fatti (Rizzuto Francesco Paolo, ndr) ha riferito circostanze false idonee a sviare le investigazioni che in quel momento si stavano svolgendo”. Le informazioni riguardavo, tra le altre cose, il motorino con cui lui si allontanò dai pressi dell’abitazione degli Agostino.
Nella sua arringa, Repici ha precisato alla Corte che “Francesco Paolo Rizzuto ha agito su induzione di qualcuno. Se fosse stato un uomo adulto le condotte che ha compiuto avrebbero tutti i caratteri del concorso in omicidio”.

Un sopralluogo necessario

Si tratta di “personaggi anfibi, che sono mafiosi ma sono anche altro”, ha detto Repici in riferimento al capo mandamento di Resuttana Nino Madonia, già condannato all’ergastolo in primo e secondo grado in un procedimento parallelo con rito abbreviato, e al boss Gaetano Scotto accusato dalla procura generale di essere stato “mandante ed esecutore” del duplice omicidio.
Dalle prove emerse durante il dibattimento non c’è dubbio che i killer hanno avuto informazioni, per esempio, sul cambio di turno che Agostino fece per poter festeggiare il compleanno di sua sorella Flora quel 5 agosto ’89. “Quell'agguato è stato studiato, mirato e costruito affinché andasse a segno quel tardo pomeriggio e con quelle modalità”, ha precisato. Per fare ciò, però, era necessario effettuare un sopralluogo per non lasciare nulla al caso.
La signora Augusta Schiera “certificò con certezza” che fu Gaetano Scotto a pedinare Nino Agostinoall'aeroporto di Fontana Rossa (a Catania) quando partì per il viaggio di nozze. Inoltre, “nei giorni successivi Vincenzo Agostino riceve una visita a Villagrazia di Carini” da due soggetti in sella ad una moto che chiedono del figlio “poliziotto”.

Un sopralluogo necessario perché i sicari “non possono rischiare e hanno necessità di accertarsi della partenza di Nino e Ida per il viaggio di nozze”. Ad assicurarsene fu Gaetano Scotto, accompagnato da un altro soggetto con “la faccia da mostro”.

“Dì a tuo figlio che siamo colleghi”, dissero a Vincenzo Agostino. Una frase che “non è esattamente il riflesso pavloviano di un uomo d’onore di Cosa nostra, bensì di un uomo che è stato in Polizia”, ha commentato Repici.
Recentemente quell’uomo è stato riconosciuto dal padre di Nino Agostino in un confronto all’americana nella persona di Giovanni Aiello (deceduto di infarto in barca nel 2017). Un soggetto che è stato accusato dalla procura generale di essere un “punciuto” mancato, “culo e camicia” con Contrada nonché anello di giunzione fra mafia e servizi segreti.
Quel sopralluogo viene fatto, ha precisato Repici, “perché va studiato tutto e perché si tratta dell’omicidio di un poliziotto che deve essere commesso a Villa Grazia di Carini, in un contesto come quello del 1989, nei mesi da incubo di Giovanni Falcone che poi sono anche i mesi da incubo di Nino Agostino”.

La verità di un padre e l’amore di una madre

Nino Agostino non era uno sprovveduto. Da questo procedimento è emerso chiaramente come lo stesso, nei suoi ultimi mesi di vita, temesse per la sua incolumità. E se è stato possibile ricostruire i messaggi postumi che ha lasciato “come messaggi in una bottiglia” è stato anche grazie a suo padre Vincenzo, indomito gigante buono che sulla bara del figlio e della nuora ha promesso che non si sarebbe tagliato la barba e i capelli fino a quando non avrebbe ottenuto verità e giustizia. Una promessa che resiste ancora oggi, nonostante le sue condizioni di salute. “Un uomo che con la forza e forse pure le sembianze di Jean Valjean si è fatto carico del mondo per cercare di dare giustizia a suo figlio e a sua nuora”, ha detto Repici. Ad accompagnarlo in questa tortuosa ricerca di verità c’è stata sua moglie Augusta Schiera, deceduta nel 2019.

“Era più restia del marito a parlare in pubblico ma poi si costrinse per amore di suo figlio – ha continuato l’avvocato -. Nel 1995, in occasione di un intervento pubblico, disse: ‘Questa eredità, questa ricchezza infinita, mi è stata lasciata da mio figlio Nino. Nessuno me la potrà togliere ed è per questo che finché avrò un filo di vita continuerò a partecipare alle manifestazioni contro la mafia. Girerò per tutto il mondo a gridare il mio dolore di madre, perché, quando mi vedranno, tutti dovranno pensare: ‘Ecco la mamma dell'agente Agostino, aspetta ancora che sia fatta giustizia’. Quella giustizia che io urlo ed imploro, e se non arriverà finché sarò in vita, quando morirò i miei figli scriveranno sulla mia tomba: ‘Qui giace Schiera Augusta, madre dell'agente Agostino Antonino, una mamma in attesa di verità e giustizia, anche oltre la morte’”.

“Un giorno, dopo che la signora ci lasciò - ha continuato Repici -, vidi la signora Augusta nel film ‘La meglio gioventù’ a braccetto con suo marito, come al solito. Era immortalata in una fotografia scattata da una delle protagoniste della storia. La signora Augusta teneva un cartello in cui era annotata una poesia: ‘Non chiedo un monumento grande e maestoso che arresti lo sguardo dei passanti. Tutto quello che il mio spirito ardentemente implora è di non seppellirmi in una terra di schiavi’. Ed è esattamente quello che ci ha voluto insegnare la signora Augusta. Una terra senza verità e senza giustizia è una terra di schiavi. Per questo la signora ha voluto che venissero affisse quelle parole nella sua lapide. E allora io sono convinto che qua tutti siamo tenuti a dare giustizia a quella donna. Anzi a quella tomba”. Fonte: antimafiaduemila.com