
Report: destra eversiva nella strage di Capaci e nel delitto di Piersanti Mattarella. Repici: “Se si fosse data sufficiente attenzione alle rivelazioni fatte da Alberto Lo Cicero…”
Nelle dichiarazioni di testimoni e collaboratori di giustizia la presenza di Delle Chiaie e soggetti esterni a Cosa nostra
Mafia e destra eversiva hanno collaborato nell’esecuzione e organizzazione di stragi e omicidi eccellenti. Non si tratta di un’invenzione, come dicono i fautori del teorema de “la mafia ha fatto tutto da sola”, ma di una pista investigativa inaugurata dal giudice Giovanni Falcone con l’apertura delle indagini sull’omicidio del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio del 1980, otto mesi prima della strage alla stazione di Bologna. Falcone credeva che i killer fossero Gilberto Cavallini e Valerio Fioravanti, processati e in seguito assolti per l’omicidio del politico siciliano nonché delfino di Aldo Moro: fu Mattarella che volle tentare di riaprire la stagione politica iniziata con il compromesso storico, cercando un’alleanza con i comunisti con l’obiettivo di governare insieme la Sicilia, in diretta contrapposizione con la corrente fanfaniana rappresentata da Vito Ciancimino. Molto probabilmente Piersanti Mattarella, sulla spinta emotiva dell’omicidio Moro, sarebbe diventato vicesegretario nazionale della DC. Era per questo che andava eliminato? Dai documenti, verbali dimenticati e fatti riemergere dalla trasmissione di Report, è emerso che Falcone stava seriamente lavorando sulla P2, su Gladio, sul ruolo della destra eversiva nelle stragi di mafia fino a quel momento attribuite solo a Cosa Nostra. C’erano state anche delle audizioni in Commissione Parlamentare Antimafia nell’88 e nel ’90, ma gli audio erano pressoché semidistrutti. Nel servizio a cura di Paolo Mondani, con la collaborazione di Roberto Perzio, la voce di Falcone è stata fatta sentire (restaurata dall’intelligenza artificiale) e la “pista nera” ritorna ad assumere una valenza tutt’altro che ipotetica: “Il problema di maggiore complessità per quanto riguarda l’omicidio Mattarella deriva dall’esistenza di indizi a carico di esponenti della destra eversiva. È quindi un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro paese anche da tempi assai lontani”. Inoltre, “stava faticosamente emergendo la realtà estremamente singolare di Cristiano Fioravanti, che era passato a un convincimento che il fratello Valerio fosse coinvolto nell’omicidio Mattarella, nell’affermazione sicura, convinta, perché diceva che era stato il fratello stesso a dirglielo”, disse Falcone davanti alla Commissione Antimafia il 22 giugno 1990, consapevole delle enormi difficoltà che si stavano riscontrando nelle indagini.
Oltre a questo, c’è anche la testimonianza davanti alla Corte d’Assise di Palermo del 23 giugno 1992 della moglie di Piersanti Mattarella, Irma Chiazzese: “Io ho presente molto spesso il volto dell’uomo che sparò a mio marito la mattina del 6 gennaio. Ho presente gli elementi che caratterizzavano quel volto, la carnagione chiara, i capelli castani e soprattutto gli occhi, quegli occhi che mi hanno subito colpita e che ricordo ancora. Posso dire con quasi certezza che il killer di Piersanti Mattarella è Giusva Fioravanti”. Ad oggi, nonostante queste prove e testimonianze solide, “l’omicidio Mattarella è a tutt’oggi un omicidio in larga misura irrisolto”, ha detto l’ex procuratore generale di Palermo e oggi senatore Roberto Scarpinato a Report, aggiungendo che “non soltanto perché non sono stati individuati e condannati gli esecutori materiali, ma perché non sono state chiarite le motivazioni complesse di quell’omicidio né sono stati individuati i mandanti ultimi politici di quell’omicidio”. Un passo avanti lo ha fatto la Corte d’Assise di Bologna nella sentenza che ha condannato Gilberto Cavallini come uno degli esecutori della strage di Bologna, che è stata depositata nel gennaio del 2021. In questa sentenza, la Corte d’Assise fa un’ampia rivisitazione dell’omicidio Mattarella, a cui dedica circa 100 pagine, e poi conclude dicendo che si tratta di un omicidio politico in cui è coinvolta la mafia, non soltanto la mafia, e anche l’antistato. E in effetti, la Corte d’Assise di Bologna coglie nel segno, perché le indagini di Falcone su Mattarella segnano una svolta nella sua vita.
La targa dell’auto dei killer: la distruzione della “prova principe”
Le indagini subiranno una svolta decisiva nel 2020, anno in cui la “prova regina” che avrebbe potuto collegare l’omicidio Mattarella ai NAR viene scartata dalla Procura di Palermo: si trattava della targa della Fiat 127 con la quale i killer si portarono sul luogo dell’omicidio. Alle telecamere di Report, l’avvocato dell’associazione delle vittime della strage di Bologna, Andrea Speranzoni, ha ricostruito il quadro, spiegando che sulla macchina guidata dal commando vennero applicati degli “spezzoni di due targhe, di due autoveicoli rubati il giorno prima in prossimità del luogo dell’agguato, e avevano creato una sorta di collage con gli spezzoni di queste due targhe che erano state mescolate per creare una targa falsa. Ce ne rendiamo conto leggendo un’importante relazione inviata da un ex magistrato nel 1989 all’Alto Commissariato per la lotta alla mafia, il suo nome è Loris D’Ambrosio. In quella relazione Loris D’Ambrosio aveva notato come un sequestro all’interno di un covo dei NAR in via Monte Asolone 63 a Torino aveva visto il rinvenimento di alcuni pezzi di targa che formavano sostanzialmente la cifra alfanumerica residua di quegli spezzoni di targa del 1980”. In altre parole: la Fiat 127 aveva una targa falsa (PA546623), creata combinando spezzoni di due targhe rubate il giorno prima a Palermo (PA536623 e PA540916). Nel 1982, in un covo dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) a Torino, in via Monte Asolone, i Carabinieri sequestrarono pezzi di targa con la sequenza alfanumerica PA563091, che corrispondeva ai residui delle targhe usate nell’omicidio. Tuttavia, nessuno collegò subito i reperti all’omicidio Mattarella. Nel 1989, il magistrato Loris D’Ambrosio, incaricato da Giovanni Falcone, notò la coincidenza tra i pezzi di targa sequestrati e quelli dell’omicidio. Falcone inviò il giudice Gioacchino Natoli a Roma per recuperare le targhe, che nel frattempo erano state trasferite dall’Ufficio Corpi di Reato di Torino a Roma.
Tuttavia, le targhe arrivate a Palermo risultavano integre, non spezzoni, e nel 2020 la Procura di Palermo concluse che non erano i residui delle targhe usate nell’omicidio, escludendo così un collegamento diretto con i NAR (Fioravanti, Cavallini e altri). Ma l’avvocato Andrea Speranzoni rilevò un’anomalia: il verbale del sequestro del 1982 a Torino (eseguito dal capitano dei Carabinieri Giorgio Tesser, oggi generale) descriveva “due pezzi di targa, di cui uno comprendente sigla PA e uno contenente la sigla PA e il numero 563091”, mentre quello del 1989 a Roma, firmato da Natoli, parlava di due targhe integre, una anteriore e l’altra posteriore, anch’esse relative al numero PA563091.
A ricevere le targhe nel 1983 a Roma fu l’ufficiale dell’Arma Mario Mori, allora comandante del Nucleo Anticrimine dei Carabinieri della Capitale. Inoltre, Speranzoni scoprì che una targa con la stessa sequenza alfanumerica apparteneva a un’auto di una cittadina di Palermo, rubata nell’aprile 1982. Questo porta a due ipotesi: o i NAR rubarono casualmente una targa identica ai residui delle targhe dell’omicidio, o i reperti furono sostituiti. Un ulteriore colpo di scena emerse con la scoperta di un documento del 15 giugno 2004 che attestava la distruzione delle targhe a Roma, “mediante lacerazione e deformazione”, ha detto il legale. Ciò solleva la domanda: se le targhe furono distrutte a Roma, quali sono quelle analizzate a Palermo nel 2020? La discrepanza suggerisce un possibile scambio o manipolazione dei reperti tra il 1982 e il 1989, durante il trasferimento da Torino a Roma e poi a Palermo. Nel frattempo, la Procura di Palermo ha abbandonato la pista nera (legata ai NAR) e ha messo sotto inchiesta due boss mafiosi, Giuseppe Lucchese e Nino Madonia, per l’omicidio Mattarella, lasciando irrisolte le domande sulle targhe e sulla loro gestione. “Di Nino Madonia, più o meno coetaneo di Valerio Fioravanti e definito il suo sosia, si era già parlato molto anche negli anni precedenti e negli stessi anni ’90, ma non era mai intervenuto il minimo indizio serio a carico di Nino Madonia”, ha detto l’ex magistrato Giuliano Turone, aggiungendo che “più specificamente, la sentenza Cavallini ne dimostra pienamente l’infondatezza, dedicando parecchie pagine alla posizione di questo Nino Madonia”.
Mafia e massoneria
Durante la puntata è entrata in scena anche la componente massonica deviata: “D’Ambrosio e Falcone si rendono conto che i terroristi dei NAR, fin dal 1977-78, erano diventati il braccio armato della loggia P2”, ha detto Turone. Ad approfondire il tema è Piera Amendola, archivista della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2: “Falcone sentiva le stesse persone che il dottor Mancuso, pubblico ministero, nel primo processo per la strage alla stazione di Bologna, stava ascoltando. E poi ha una carta in più, che si chiama Stefano Alberto Volo, che era un intimo amico di Francesco Mangiameli”. Volo è stato un neofascista siciliano al servizio degli apparati segreti (e illegali) dello Stato, mentre Francesco Mangiameli era un dirigente palermitano di Terza Posizione, gruppo dell’estrema destra molto vicino ai NAR, che raccontò ad Alberto Volo, simpatizzante del gruppo, di alcune riunioni precedenti la morte di Mattarella e la strage di Bologna, alla presenza di Fioravanti e Mambro. Successivamente, Volo divenne fonte testimoniale di Falcone. “Mangiameli”, ha detto Amendola, “disse a Falcone che un’altra riunione preparatoria del delitto Mattarella si era svolta a casa di Licio Gelli. Ecco che Falcone imbocca anche la pista della P2, inevitabilmente. Alla luce di quello che poi è accaduto, nell’ultimo processo per la strage alla stazione di Bologna, quando abbiamo finalmente scoperto che i mandanti della strage sono Gelli, Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Tedeschi, cioè la P2, e che Gelli ha finanziato la strage a partire dalla primavera del ’79, questo è l’elemento in più, ovviamente, che mancava a Falcone”.
E poi ancora: dal processo bolognese emerge che, nel periodo 78-80, Gelli ogni mese si recava in Sicilia e aveva buoni amici nella mafia, in particolare il principe di Villa Grazia, l’allora capo di Cosa Nostra, Stefano Bontate. “Bontate”, ha ricostruito l’archivista, “aveva costituito una sua loggia massonica, che si chiamava la Loggia dei Trecento. Era un’appendice della P2. Bontate aveva un ambizioso progetto massonico, cioè quello di dare vita a una holding di logge coperte. Il primo che coinvolge è Franco Freda, l’eversore autore della strage di Piazza Fontana, che si trovava in Calabria, a Catanzaro, proprio per il processo di Piazza Fontana. Viene fatto evadere con l’aiuto di ‘ndranghetisti e altri esponenti della destra, portato a Reggio Calabria. Ed è qui che dà vita a una loggia massonica; a questa loggia aderiscono immediatamente esponenti della destra eversiva, esponenti della ‘Ndrangheta, esponenti dei servizi segreti. Tutto questo è riconducibile, perché poi i collaboratori di giustizia calabresi ce lo dicono, a concorrere insieme a un tentativo di poter finalmente liberare la Calabria e la Sicilia dal giogo del governo centrale. Ecco, questo lo vedo proprio in linea con il progetto di Licio Gelli, con il piano di rinascita democratica”. Quindi Falcone si era avvicinato a quel sistema di potere che riuniva mafia, destra eversiva e forze statali sotto la stessa “cupola”?
Scarpinato: “Emersi elementi molto rilevanti sulla cosiddetta pista nera”
Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 emergono elementi significativi sulla cosiddetta “pista nera” legata alla strage di Capaci, con particolare riferimento al coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale, figura di spicco dell’estrema destra eversiva, già indagato per stragi come Piazza Fontana e Bologna, ma sempre prosciolto. “Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 erano emersi degli elementi molto rilevanti sulla cosiddetta pista nera e in particolare sul coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie”, ha detto Roberto Scarpinato. “Si trattava di due infiltrati: la sorella di Domenico Romeo, uomo di fiducia, autista di Stefano Delle Chiaie, e Alberto Lo Cicero, che era l’autista e l’uomo di fiducia di un importante boss di Cosa Nostra, Tullio Troia (detto "U Mussolini", ndr), era un estremista di destra a sua volta, e nella sua abitazione si svolgevano incontri, riscontrati, con esponenti politici della destra e con altri esponenti della destra eversiva”. Lo Cicero e la sua compagna Maria Romeo, poco prima della strage, indicarono a un brigadiere dei Carabinieri, Walter Giustini, la presenza a Capaci di Delle Chiaie: “Pochi giorni prima della strage di Capaci mi disse che aveva notato a Capaci, perché Lo Cicero abitava a Capaci, la presenza di personaggi di spicco di Cosa Nostra, che, secondo lui, non avrebbero avuto motivo di essere lì se non perché doveva succedere qualcosa di eclatante”. Delle Chiaie “girava per Capaci”, ha detto Walter Giustini a Report. “La cosa estremamente rilevante”, riprende Scarpinato, “è che sia Maria Romeo sia Lo Cicero indicano uno dei personaggi che anni dopo sarà scoperto come uno degli esecutori della strage di Capaci, cioè Antonino Troia, e che sarà condannato come coinvolto nella strage di Capaci”.
Roberto Scarpinato
Tuttavia, nel novembre del 2023, il Tribunale di Caltanissetta non ha creduto a molte delle cose dette dal carabiniere Giustini, mettendolo sotto inchiesta per depistaggio e rinviandolo a giudizio, e ha ritenuto troppo incerte e non credibili le dichiarazioni della compagna di Alberto Lo Cicero, Maria Romeo. Al contrario, l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, che aveva istruito un’indagine sulla pista nera sin dagli anni ’90, per poi riprenderla nel 2021, ritiene le loro dichiarazioni attendibili. Peraltro, Maria Romeo non ha mai smentito le rivelazioni fatte a Report: “Alberto mi ha detto così, che stavano organizzando col Bonanno, il Troia e c’era pure questo Stefano Delle Chiaie. Alberto ha fatto un sopralluogo con queste persone dove c’era un tunnel a Capaci”. “Alberto pensava che Stefano Delle Chiaie era l’aggancio fra mafia e lo Stato”, ha aggiunto. “I Carabinieri, quindi”, ha ripreso Scarpinato, “sulla base delle informazioni che ricevono da Maria Romeo e da Alberto Lo Cicero, il 10 giugno e il 12 giugno del 1992 preparano, scrivono e inviano alla Procura due informative in cui fanno espressamente i nomi di Maria Romeo e di Alberto Lo Cicero come fonti attendibili e riscontrate. Queste informative sono estremamente interessanti perché coinvolgono Paolo Borsellino”.
“Abbiamo la prova che Paolo Borsellino viene a conoscenza di queste informative e che partecipa a una riunione di coordinamento il 15 giugno del 1992 tra la Procura di Caltanissetta e la Procura di Palermo, che ha come oggetto le rivelazioni di Lo Cicero. Ma c’è un altro elemento, perché risulta documentato da una missiva che Paolo Borsellino aveva lasciato in istruzione: quando Lo Cicero inizierà a collaborare, perché fino a quella data è un infiltrato, prima lo deve sentire la Procura di Palermo e poi la Procura di Caltanissetta”. Rimane da capire perché Borsellino aveva preso parte alla riunione del 15 giugno, non avendo la delega per le indagini su Palermo, che otterrà solo il giorno della sua morte, il 19 luglio. Ma è ancora più inquietante quel che scrivono i Carabinieri il 14 settembre del 1992, quando spiegano che Borsellino aveva raggiunto accordi per interrogare per primo Alberto Lo Cicero, togliendolo alla Procura di Caltanissetta, che aveva però la titolarità delle indagini sulla strage di Capaci. Come si spiegano comportamenti così irrituali? “La spiegazione è solo una, dal mio punto di vista - ha ripreso Scarpinato - Sappiamo da fonti processuali certe, che risalgono a circa 20 anni fa, che Paolo Borsellino incontra al Palazzo di Giustizia sia Lo Cicero sia Maria Romeo, ed è evidente che l’incontro, nel momento in cui Lo Cicero non è ancora collaboratore, quindi non può mettere a verbale le dichiarazioni di Lo Cicero, è un infiltrato, è un soggetto che sta collaborando segretamente, che si prepara a diventare collaboratore e che anticipa a Borsellino quello che sa. Quello che sa soprattutto sulla strage di Capaci e su Delle Chiaie”.
L’informativa ritrovata dal magistrato Gianfranco Donadio
Un’informativa del 5 ottobre 1992, firmata dal capitano Gianfranco Cavallo (oggi generale), descrive Delle Chiaie a Capaci nell’aprile 1992, in contatto con Troia per procurarsi esplosivo da una cava, ma tale informativa scompare dagli archivi, insieme ad altre relazioni inviate a diverse autorità, tra cui ai magistrati Aliquò, Tinebra e Celesti e agli ufficiali dei Carabinieri Borghini e Adinolfi. “Questa relazione”, ha dichiarato Roberto Scarpinato, “viene mandata a tante autorità, al prefetto di Palermo, perché si diceva che Stefano Delle Chiaie progettava anche un attentato nei confronti del magistrato Ayala, al Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo, al Comando del ROS di Palermo, alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo. Tutte queste relazioni scompaiono dagli archivi, scompaiono anche dal fascicolo riservato di Maria Romeo, di Domenico Romeo, dove dovevano esserci necessariamente. Non solo scompaiono, ma succede di più. Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo, viene incaricato di fare delle indagini. E quello che è strano è che Arnaldo La Barbera dice che non risulta che Stefano Delle Chiaie abbia mai visitato la Sicilia, nonostante dalla banca dati della polizia risultasse che era venuto a dicembre, nonostante risultasse che era venuto in un’altra occasione in Sicilia”. La nota informativa del capitano Cavallo venne poi trovata, molti anni dopo, dal sostituto procuratore Gianfranco Donadio nell’archivio della Direzione Nazionale Antimafia, che nel 2007 decide così di sentire a verbale Alberto Lo Cicero. Il suo è un colloquio investigativo, dopo quasi vent’anni, e ancora sotto segreto. A questo punto, si apprende dalla puntata, Report riceve un messaggio vocale anonimo che riporta i passi decisivi del verbale segretato di Alberto Lo Cicero: “Il 5 maggio del 2007 il sostituto procuratore nazionale antimafia Gianfranco Donadio interroga Alberto Lo Cicero in un colloquio investigativo. Dice Lo Cicero: Ho conosciuto Stefano Delle Chiaie a casa di Maria Romeo a Palermo. Ricordo con precisione che Stefano Delle Chiaie, poco prima della strage di Capaci, si trovava sul posto dove hanno messo l’esplosivo della strage per effettuare un sopralluogo con una macchina blu. Io stesso lo vidi in quei luoghi più di una volta. Ricordo che avvisai i Carabinieri prima dell’attentato di Capaci, segnalando gli strani movimenti vicino all’autostrada. Diciamo che, per suggellare l’accordo con la politica, il Delle Chiaie presenziò l’ultima fase preparatoria dell’attentato di Capaci. Di Borsellino devo dire che avevo incontrato quel magistrato”. “Dice Maria Romeo: nel 1992, prima delle stragi, ho rivisto a Palermo Stefano Delle Chiaie, in compagnia di mio fratello Domenico e dall’avvocato Menicacci. Mi risulta, per averlo sentito in casa di mia madre, che il Delle Chiaie, al telefono, parlava espressamente di esplosivo da ritirare presso una cava di Capaci. A Borsellino ho parlato una volta soltanto, al tribunale, mentre Alberto era interrogato da Vittorio Teresi. Alberto Lo Cicero ha parlato varie volte con Borsellino”.
Non è chiaro quante volte il magistrato ucciso il 19 luglio 1992 incontrò Lo Cicero. Per Donadio i due si sono incontrati, anche se non è ancora del tutto definito il numero degli incontri.
Sempre sul solco della strage di Capaci, ricordiamo che lo stesso Donadio aveva sentito a colloquio investigativo Gioacchino La Barbera, boss di Altofonte: parlò della presenza di soggetti esterni alla vicenda della strage di Capaci. Anche in questo caso, gli audio anonimi mandati a Report si sono espressi: “Dice La Barbera: Nella scelta del sito dove mettere la bomba sono stati sempre presenti, oltre a me stesso, Gioè, Rampulla, Giovanni Brusca, Antonio Gioia e Salvatore Biondino. Per fare i sopralluoghi, partivamo da un casolare e lì talvolta ho notato persone che non conoscevo. Si trattava di soggetti non appartenenti a Cosa Nostra. Antonino Gioé era personalmente impegnato nell’accompagnamento di questi personaggi, che lasciavano i loro veicoli in un luogo distante dal casolare dove vennero svolte le fasi esecutive della preparazione dell’attentato. Ricordo che, al momento del riempimento dei bidoni con esplosivo, c’erano persone estranee a Cosa Nostra che non ci furono presentate. Ritengo corretto parlare di un ruolo di supervisione di questi estranei. Gioè non mi ha mai detto chi erano queste persone estranee. Mi diceva però che stavamo facendo qualcosa che era più grande di noi e aggiungeva che c’erano in campo persone più in alto di noi e che si stava entrando in un’altra era”. Il commento dell’avvocato Fabio Repici è tranciante: “Se si fosse data sufficiente attenzione alle rivelazioni fatte da Alberto Lo Cicero ad aprile e maggio 1992, sarebbero stati individuati Salvatore Biondino, Giovan Battista Ferrante e Antonino Troia mentre operavano per la strage di Capaci”. Il tutto mentre Walter Giustini viene rinviato a giudizio per depistaggio e calunnia da Caltanissetta, nonostante sia stato lui a fornire in passato il nome dell’autista di Salvatore Riina, così da poter arrivare alla sua cattura: “Nessuno - ha concluso Fabio Repici - ha avuto il coraggio di fare i conti con una circostanza incredibile. Quando venne arrestato Salvatore Riina il 15 gennaio del 1993, noi sappiamo che l’8 gennaio era stato arrestato in Piemonte Balduccio Di Maggio e fece il nome di un personaggio che poteva fare da accompagnatore di Salvatore Riina e, poiché non lo conosceva di persona, sbagliò l’indicazione del nome e lo chiamò Biondolillo. I Carabinieri stavano impazzendo nel capire chi fosse questo Biondolillo. La sera prima della cattura di Totò Riina, a far sapere ai Carabinieri del colonnello Mori che quel Biondolillo si chiamava Salvatore Biondino fu proprio il maresciallo Giustini, grazie alle rivelazioni che aveva ricevuto da Alberto Lo Cicero. Questa è l’inattendibilità di Alberto Lo Cicero e del maresciallo Giustini. Ci sono loro dietro alla cattura di Totò Riina”.