20 Maggio 2025 Giudiziaria

Ingroia: “Sul covo di Riina l’accordo tra mafia e Stato”

Di Antonio Ingroia con Massimo Giletti - In realtà, però, non si è mai accertato, neppure nel processo in cui erano imputati il generale Mori e l’allora capitano Ultimo, e cioè il colonnello Sergio De Caprio, come si sia arrivati a individuare la villa di Riina. Secondo i carabinieri vi giunsero seguendo le tracce dei mafiosi Sansone, ritenuti vicini a Totò Riina.
Io ho un’idea diversa.
Penso che sia stata una cordata interna a Cosa Nostra ad aver tradito Riina, una cordata che coinvolgeva i fratelli Graviano e Bernardo Provenzano, che aveva fatto pervenire al maresciallo Antonino Lombardo una soffiata decisiva per l’individuazione del covo di Riina. Lombardo, che – ricordiamolo – pochi anni dopo l’arresto di Riina verrà ritrovato morto all’interno di una caserma dei carabinieri di Palermo, in circostanze estremamente sospette, per un colpo d’arma da fuoco, che – secondo la versione ufficiale – si sarebbe sparato da solo. Un suicidio misterioso cui si aggiunge la sua lettera-testamento – ma secondo una perizia la grafia in una parte della lettera non sarebbe la sua… – che era soprattutto un atto d’accusa nei confronti dei suoi superiori e dove si faceva anche riferimento al suo contributo per l’arresto di Riina. Ebbene, se mettiamo insieme tutti questi tasselli, e altri ancora che sarebbe lungo esporre qui, è più che legittimo pensare che Riina venne consegnato allo Stato dai traditori interni a Cosa Nostra che volevano liberarsi di un uomo ingombrante.
Perché volevano liberarsene?
Ci sono varie risposte che si possono dare a questa domanda. La prima, più banale, è che Riina stava portando fino alle estreme conseguenze un conflitto aperto contro le istituzioni che Cosa Nostra non poteva reggere, e quindi gli altri capimafia hanno compreso che l’unica via d’uscita era di consegnarlo allo Stato come capro espiatorio per avviare un percorso nuovo di sopravvivenza di Cosa Nostra, che altrimenti sarebbe stata distrutta. Di questa via d’uscita fu principale artefice Bernardo Provenzano che assieme ai Graviano aveva bisogno di liberarsi di Riina, perché il capo dei capi, nella trattativa che era stata avviata, aveva dettato delle condizioni inaccettabili per lo Stato. Era arrivato un messaggio dallo Stato: ‘La trattativa si può fare, ma non alle condizioni poste da Riina. Quindi, togliamo di mezzo Riina, aiutateci ad arrestarlo, e proseguiamo la trattativa in termini più accettabili’. E così la trattativa proseguì, come tanti collaboratori di giustizia hanno raccontato, con Bernardo Provenzano dalla Sicilia e i fratelli Graviano tra Roma e Milano. Del resto, con buona pace del generale Mario Mori, coordinatore dell’operazione che portò all’arresto di Riina e della scelta di non perquisirne il covo, subita dalla Procura di Palermo in cambio dell’assicurazione da parte dei carabinieri che il luogo sarebbe rimasto sotto osservazione – cosa che non avvenne, visto che poche ore dopo l’arresto venne rimossa ogni attività di osservazione –, quel che è certo è che la mancata perquisizione e poi la rimozione di ogni sorveglianza sul covo consentì ai mafiosi di ripulirlo completamente, anche dei documenti delicatissimi che di certo Riina custodiva in quella casa.
Quella fu certamente una brillante operazione di polizia, perché venne arrestato il più sanguinario degli assassini, ma è rimasta un’operazione incomprensibilmente incompiuta, almeno in apparenza, perfino per gli stessi giudici che hanno assolto Mori e De Caprio, visto che scrissero in sentenza che restava ‘incomprensibile’ perché non fosse stata fatta quella perquisizione: ‘Ma quel che più rileva – ad avviso del Collegio – è che non è stato possibile accertare la causale delle condotte degli imputati’. E io ho solo una spiegazione, di cui sono tuttora convinto: se Riina fu tradito, i suoi traditori possono averlo consegnato allo Stato non gratuitamente, ma in cambio di qualcosa. E questo qualcosa ben poteva essere la promessa che il covo e ciò che stava dentro sarebbero rimasti nelle loro mani. Su questa mia verità ci siamo recentemente confrontati in un pubblico dibattito con il generale Mori, il quale ha replicato sostenendo che Riina non tenesse documenti importanti nella casa dove stava con i propri familiari.
Ebbene, la circostanza è smentita da varie dichiarazioni di collaboratori, e in particolare di uno molto vicino a Riina, cioè Giovanni Brusca, che ha dichiarato che in ogni casa in cui il capomafia abitava c’era una cassaforte dove teneva i documenti più preziosi, che spostava da un luogo all’altro quando era costretto a trasferirsi. E del resto che fosse verosimile, se non certo, che Riina tenesse documenti assai rilevanti in quella casa lo hanno scritto in sentenza gli stessi giudici che pure hanno assolto Mori.
Mi sento di dire che la storia del nostro Paese, se quella perquisizione fosse stata fatta, sarebbe stata un’altra perché si sarebbero potute scoprire le collusioni più alte che avevano consentito a Riina di tenere il potere per decenni e restare latitante per un quarto di secolo, provocando la rabbia di Giovanni Falcone.
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