
IL RETROSCENA – L’ex consulente del ministero, il messinese Fabio Longo: “Su Boccia, Giuli sapeva tutto”
Di Thomas Mackinson - “Io e Giuli abbiamo fatto tutto insieme”. Così sosteneva Fabio Longo raccontando la guerra dei mondi al ministero della Cultura, sempre con l’aria di chi la sa lunga. Prima sodale dell’ex ministro Sangiuliano, poi sponda del neoministro Giuli, infine braccio armato della sottosegretaria Borgonzoni. Stratega, suggeritore, tessitore di rapporti e sempre al centro – a sentir lui – di tante manovre e congiure politico-mediatiche. Fino al tracollo. A febbraio sbaglia bersaglio: in un bar romano, offre al giornalista sbagliato convegni a pagamento in cambio di “un occhio di riguardo per Lucia”. Gli va male. Il cronista del Fatto non si vende. Racconta tutto. Longo si dimette.
Le opposizioni incalzano. Chiedono a Giuli di riferire. Il M5S deposita un esposto alla Procura: vuole chiarimenti sull’uso “torbido” dei fondi pubblici per condizionare l’informazione e scoprire per chi parlasse davvero Longo. In apnea restano anche quelli che l’hanno finora scritturato e pagato: cos’altro avrà mai raccontato al cronista che credeva di comprare?
In effetti Longo parlava parecchio, e a ruota libera. Tornava spesso sul caso Boccia, unendo così anche i pallini che portano fino alle recenti tensioni tra Giuli e Borgonzoni su cui in ultimo elaborava la strategia per spostare il baricentro mediatico verso di lei, anche allettando i giornali ostili con la pubblicità.
“Fui io a dare l’allarme sul caso Boccia”, raccontava. “A fine giugno 2024, con il segretario Emanuele Merlino ce li trovammo a Taormina, lui che le prendeva le valigie e se le portava in camera sua, benché lei ne avesse una all’Ariston. Ci litigai pure con Gennaro, ma lui negava”. Così “entrai in protezione, avvisando il consigliere Contestabile e pure Fazzolari. Poi mi hanno ringraziato per questo, poteva andare anche peggio”.
Sangiuliano, oggi, senza giri di parole: “Ho sempre avuto il sospetto che mi abbia venduto lui a Dagospia, che con me è stato di una ferocia inaudita. Lui stesso poi si era venduto armi e bagagli alla Borgonzoni. Il fatto che non si sia più fatto vivo con me qualcosa vorrà pur dire. È scomparso”.
Altro retroscena. “Quando a fine agosto 2024 scoppiò il bordello al ministero sulla Boccia – dice ancora Longo – io e Giuli eravamo a Venezia e lui sapeva tutto. Lo aggiornavo sempre, siamo amici. Abbiamo fatto tutto insieme, pure le strategie”.
Come è finita? Proprio Giuli prenderà il posto di Sangiuliano e Longo sarà tra i pochi superstiti dello tsunami che travolge il ministero: trova pronta una scialuppa di incarichi e contratti lì e anche a Cinecittà, sotto il regno della leghista Borgonzoni. Resta così nel giro, distillando retroscena da far uscire sui giornali.
Con un piede sul ministro e uno sulla sottosegretaria, Longo ondeggia. Quando i due si scontrano sul “dossier cinema”, si schiera con lei e cerca sponde nella stampa. Nel mirino, oltre al Fatto, anche Dagospia e il Domani. Longo stesso spiegava che il “Festival delle serie tv” del 21-28 giugno voluto da Borgonzoni era l’occasione per “ammorbidirli”: nel budget c’erano soldi anche per selezionati giornalisti.
Al sito di gossip erano destinati 20 mila euro. Il quotidiano Domani, critico verso la coppia del cinema Borgonzoni-Sbarigia (presidente di Cinecittà), avrebbe dovuto ottenere 30 mila euro e varie moderazioni per il direttore Emiliano Fittipaldi. Borgonzoni in persona lo incontra insieme a Longo in un ristorante romano. Fittipaldi oggi dice: “Dopo il vostro pezzo ho controllato e alla fine il contratto non è andato in porto anche se la pubblicità l’avremmo presa volentieri. Sulle moderazioni, l’ho trovato strano e infatti ho declinato suggerendo altri più competenti”.
Il 7 maggio la sottosegretaria viene impallinata perfino da Pupi Avati ai David di Donatello. Giuli prova ad arginarla. La resa dei conti in corso diventa pubblica. Il fido Longo si attiva. “Giuli non è in grado di fare il ministro, è un incompetente umorale. Di cinema non sa nulla, per questo è geloso di lei, la odia proprio”. Aggiunge aneddoti, forse veri, forse no: “Erano ai ferri corti già due mesi fa. Nessuno lo sa. Per sbaglio le ha mandato un messaggio destinato alla segretaria: ‘Quella lì non la voglio vedere’. A Venezia lo scorso maggio ha annullato un bilaterale per puro capriccio. Può fare il ministro uno così?”. E dunque suggerisce: “Potresti fare un ritratto del dandy Giuli con tutte queste cose e altro ancora”. Nessun pezzo esce, ma il taccuino gronda appunti su come impastare politica e informazione servendo polpette velenose.
Il “metodo Longo” contempla anche il fuoco amico, scaricando su altri la colpa delle tensioni tra i due vertici del ministero. Succede a febbraio, quando la favoletta della destra su “Cinecittà che rinasce” scricchiola sotto il peso dei conti: studi vuoti, sponsor svaniti, niente piano industriale. Mancano pure i soldi per gli stipendi. Dopo i 15 milioni già presi, l’ad Manuela Cacciamani ne chiede altri 20. Longo: “Giuli è furioso”. Il castello traballa.
Lo sherpa corre ai ripari e prende di mira lei. Ci prova anche col Fatto. “Io ti do queste informazioni, ma se fai un pezzo devi aiutarmi a non far uscire male né Giuli, né Borgonzoni né Sbarigia. Devi scaricarla tutta sulla Cacciamani”. Perché “a me l’ha detto Giuli”. Sarà vero? E ancora: “Macché protetta di Lucia, l’ha messa lì Arianna Meloni, lo sanno tutti. Se scrivi questa cosa succede un casino, ma se non attacchi loro stanno tranquilli, perché dicono ‘vabbè, a noi non ci hanno inculato’”.
La Cacciamani sembra sapere che Longo è una mina vagante. E siccome è lei a firmare i contratti di Cinecittà, si tutela con un ombrello giuridico pensato per mettere al riparo l’ente e chi lo firma da qualunque responsabilità civile o penale, quelle che ora tocca alla Procura accertare. Testuale: “Le prestazioni dell’incaricato saranno espletate in piena autonomia, nei tempi e nei modi che di volta in volta li riterrà più opportuni, senza alcuna indicazione di modalità specifiche”. Più chiaro ancora: “L’incarico non conferisce al collaboratore alcun mandato (con o senza rappresentanza)”. Nessun obbligo, nessuna delega. Ma fatture da 10 mila euro al mese. E allora, per conto di chi parlava Longo? E soprattutto: per cosa veniva realmente pagato? Fonte: Il fatto quotidiano