
Ardita: ”Tinebra e Mori erano amici, con il procuratore ebbi frizioni sul ‘Protocollo Farfalla”’
“Esisteva una forte intesa oltre che una grande amicizia tra Tinebra e Mori. Per questo io venni del tutto escluso da questa collaborazione tra Dap e 007. Un’altra storia tutta da esplorare. Anche se ormai, forse, è troppo tardi, visto che, quando questi fatti accadevano, le mie richieste di aiuto erano rimaste inascoltate”. A dirlo, intervistato da La Verità, è il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, dal 2002 al 2011 direttore generale del dipartimento detenuti e trattamento del DAP. Il magistrato racconta gli anni al dipartimento e in particolare il suo difficile rapporto con Gianni Tinebra, diventato suo superiore dopo un decennio a capo della procura di Caltanissetta. Il nome di Tinebra è riapparso sulle cronache nazionali la scorsa settimana dopo che i magistrati nisseni, che indagano sul depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio, hanno scoperto una loggia coperta.
Una notizia che non sorprende Ardita.
“Non mi stupisce che si indaghi su questa appartenenza di cui, ai tempi, si parlava diffusamente, anche se non ne ho mai avuto la prova nel periodo in cui lavoravo al Dap”, dichiara. “D’altra parte, Tinebra era ormai così potente che anche un semplice indizio di quel presunto passato da massone avrebbe potuto indebolirlo pesantemente”. Venendo alle conflittualità con Tinebra, Ardita spiega che uno dei motivi di frizione - ce ne furono diversi - fu il “Protocollo Farfalla” e le sue ricadute. Si trattava di un accordo segreto tra Dap e servizi che consentiva agli 007 di avere rapporti diretti con i boss reclusi senza delibere, timbri o controlli. Un lascia passare in seno alle sezioni più delicate dei penitenziari dove gli 007, come emerse, riuscivano a influenzare (talvolta con l’intimidazione) mafiosi di rango che intendessero collaborare con la giustizia. E non solo. Ardita, racconta, venne a conoscenza dell’”esistenza formale” del Protocollo “soltanto a seguito dell’indagine della Procura di Roma”. E “presupponeva iniziative, a mio giudizio, fortemente inopportune che potevano realizzarsi solo scavalcando completamente il mio ufficio. Ad esempio, consentendo l’ingresso, senza la mia autorizzazione, di personale esterno ed estraneo nelle carceri”. Ma il “Protocollo Farfalla” non fu l’unico elemento di scontro tra i due magistrati. I rapporti furono spesso tesi anche se “dall’esterno apparivano più che normali, anche perché era umanamente simpatico e affabile. E, comunque, non avrei mai potuto permettermi di andare a uno scontro aperto, perché avrebbe significato soccombere. Solo una volta persi la calma, tanto che dovette entrare la segreteria nella stanza per capire se andasse tutto bene. Tinebra era copertissimo a destra e a sinistra, dentro e fuori la magistratura. Anche coloro che lo detestavano, in nome del quieto vivere tra correnti, non lo attaccarono mai e preferirono gli accordi di non belligeranza. Di questo ero ben consapevole, avendo chiaro quel che era successo al collega Alfonso Sabella, che, dopo aver denunciato i pericoli della sopracitata dissociazione, venne emarginato e costretto a lasciare l’ufficio ispettivo”. Il magistrato catanese rammenta che “a un certo punto, per me la vita era diventata impossibile. Venivo costantemente isolato o scavalcato. Un giorno arrivarono anche due pacchi bomba, uno per me e uno per Tinebra. Erano pieni di esplosivo, di chiodi e di bulloni e potevano uccidere. L’indagine della procura di Roma fu subito orientata sulla pista anarchica, perché altri plichi erano stati mandati con analoga modalità. Per questi furono trovati gli autori e celebrati i processi. Gli unici pacchi per i quali non si riuscì a individuare il responsabile erano quelli arrivati al Dap. Nonostante fosse una vicenda inquietante, lui reagì con un atteggiamento quasi di sfida. A un giornalista disse: ‘Non me ne può fregare di meno.’ Io rimasi sgomento e tutt’oggi giudico quella storia francamente oscura".
Ardita veniva intercettato illegalmente
Nell’intervista il magistrato risponde anche a una domanda su quanto emerso di recente dal verbale rilasciato dell’ex collaboratore di Tinebra Calogero Sortinoalla procura di Caltanissetta sulla presenza di un’auto con apparato GA900 per intercettazioni parcheggiata vicino l’ufficio di Ardita. “Se fosse vero, si tratterebbe di un fatto gravissimo”, commenta il procuratore aggiunto. “Il mio telefono era una delle fonti di informazione più rilevanti se si voleva comprendere quale fosse lo stato della lotta alla mafia, delle collaborazioni con la giustizia, delle indagini più importanti. Perché moltissimi colleghi mi chiedevano consiglio e aiuto per i trasferimenti dei detenuti e interventi nella loro gestione penitenziaria”.
Il sospetto di essere intercettato arrivò “perché alcune informazioni che erano state trattate solo durante conversazioni telefoniche erano conosciute da altri. Alcune questioni interne all’ufficio, di cui avevo parlato con persone di massima affidabilità, le ho ritrovate riportate in forma distorta all’interno di alcuni dossier anonimi confezionati ai miei danni”. Per esempio “in un’occasione, un mio collaboratore mi aveva riferito al telefono che un altro nostro dipendente aveva coperto col bianchetto la propria sigla su un atto che doveva essere portato alla firma del direttore dell’ufficio. Prima ancora che potessi accertare questa curiosa richiesta, arrivò un esposto anonimo nel quale c’era scritto che, per mia colpa, nell’ufficio venivano sbianchettati i provvedimenti”. “Un’altra volta, sempre al telefono, contestai il trasferimento di un detenuto in una sede che non mi sembrava idonea, e prima ancora di farlo revocare, mi ritrovai l’anonimo che mi accusava di aver deciso io quello spostamento”. La sensazione di essere intercettato era condivisa anche da altri al Dipartimento. “Si era sparsa la voce che venissero fatte intercettazioni abusive. Tanto che un giorno il Guardasigilli Roberto Castelli fece un’irruzione a sorpresa per sapere se e dove la polizia penitenziaria svolgesse attività di ascolto. Ma lo condussero da tutt’altra parte, almeno quello si disse”.
L’astio nato dalla collaborazione di Giuffrè
Sebastiano Ardita dice di aver individuato l’astio di Tinebra nei suoi confronti con l’inizio del percorso di collaborazione con la giustizia del boss di Cosa nostra Nino Giuffrè. “Fu certamente una delle cause scatenanti del conflitto con lui”, afferma. “Avevo ricevuto dei segnali evidenti del fatto che il capo mafia stesse attraversando un periodo di crisi personale. Ero abituato a trattare in prima persona queste situazioni. E quindi delegai la direttrice del carcere di Novara, la dottoressa Guidi, ad andarlo a trovare più spesso del solito e lei mi informava di tutto. Finché un giorno le dissi di andare a chiedergli a nome mio se fosse intenzionato a collaborare con la giustizia.
La Guidi mi riferì che aveva rifiutato. Quando le domandai che cosa avesse risposto esattamente il boss, mi spiegò che si era fermato un attimo a pensare e poi aveva detto ‘lasciamo perdere’. Balzai sulla sedia e replicai: ‘Significa che ha accettato!’” perché “un capo mafia, quando rifiuta la collaborazione, lo fa rispondendo in malo modo e, invece, Giuffrè era stato quasi possibilista. Allora avvisai l’allora procuratore di Palermo, Piero Grasso, e lo invitai ad andare a trovare al più presto Giuffrè. Grasso si recò a Novara ad interrogarlo e poi passò direttamente da me prima di rientrare a Palermo. Mi chiese di mantenere il segreto con chiunque. E così feci”. Il problema sorse quando Tinebra seppe della scelta di Giuffrè, della quale non era stato informato. “Quando si seppe della collaborazione di Giuffrè, mi convocò nel suo ufficio. Ricordo che aveva un giornale aperto sul tavolo. Il quotidiano raccontava che Giuffrè stava rilasciando dichiarazioni sul senatore Marcello Dell’Utri. Tinebra mi chiese se ne sapessi qualcosa e io gli dissi la verità. Ovviamente, la mia decisione di non avvertirlo gli aveva fatto fare una brutta figura con gli esponenti della maggioranza di governo che lo avevano promosso al Dap e che non aveva potuto preavvisare del terremoto che la collaborazione di Giuffrè era destinata a causare”. “Da quel giorno, non ricevetti mai più telefonate della Guidi e seppi che lei ed altri direttori con cui avevo un rapporto di collaborazione erano stati invitati ad avere rapporti solo con l’ufficio ispettivo, diretto da Leopardi. Devo dire che, dopo il caso Giuffrè, ricevetti pochissimi aggiornamenti anche dai direttori degli istituti dove erano detenuti i 41 bis. Era come se avessero ricevuto la disposizione di bypassarmi.” Il clima arrivò a un punto tale che Tinebra si attivò per non riconfermare Sebastiano Ardita al Dap. “Seppi tempo dopo che aveva chiesto a Castelli di non rinnovarmi. Ma, per mia fortuna, tanto il ministro, quanto il capo di gabinetto e il sottosegretario, che apprezzavano il mio lavoro, tutti insieme fecero muro, ed evitai in extremis di essere messo alla porta”.