2 Maggio 2022 Attualità

I soldi della P2 – “L’importanza di un libro” di Fabio Repici

Di Fabio Repici - Nella giornata dedicata a celebrare i diritti dei lavoratori, scrivo queste righe a commento di due episodi di cronaca. Entrambi mi confortano nel convincimento che «I soldi della P2» sia un libro di qualche pregio e mi confermano nell’onore che quel libro mi ha dato nel vedere, tra i nomi degli autori, il mio accanto a quello di Antonella Beccaria e Mario Vaudano.

Il primo episodio è di quasi due mesi fa. Nel quartiere Tuscolano di Roma, venne arrestato un mafioso di Vibo Valentia, Giuseppe Campisi, ricercato dal mese di ottobre 2019 per traffico internazionale di droga. Nel suo covo, finanzieri e poliziotti che lo ammanettarono, fra documenti falsi, una parrucca e un computer, trovarono alcuni volumi di una collana filosofica e tre libri: «Complici e colpevoli» di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, «I killer della ‘Ndrangheta» di Klaus Davi e il nostro «I soldi della P2». Se la curiosità del boss per i primi due titoli era facilmente spiegabile (Gratteri è il capo della Dda che aveva ottenuto la misura cautelare per Campisi e il libro di Davi fin dalla copertina richiama l’organizzazione mafiosa calabrese nella quale milita Campisi), quella per «I soldi della P2» era più misteriosa, non comparendo una citazione della ‘Ndrangheta nemmeno nel sottotitolo («Sequestri, casinò, mafie e neofascismo: la lunga scia che porta a Licio Gelli»). La mia speranza fu che il giudice gliene chiedesse spiegazioni nell’interrogatorio di garanzia e che il boss rispondesse. Non so se sia accaduto. In assenza di notizie al riguardo, il mio sospetto fu che l’interesse del mafioso calabrese per il nostro libro fosse derivato da qualcuno dei sequestri di persona che abbiamo raccontato e dei canali di riciclaggio dei riscatti. In particolare, il mio pensiero andò al sequestro di Cristina Mazzotti, conclusosi tragicamente con l’uccisione della diciottenne, rapita nella notte fra il 30 giugno e l’1 luglio 1975 a Eupilio, in provincia di Como. L’avevo pensato perché in quel delitto avevano avuto un ruolo alcuni criminali della provincia di Catanzaro, che al tempo comprendeva anche il territorio di Vibo Valentia.

E qui veniamo al secondo episodio che ha generato queste righe e che è cronaca attuale. Ieri mattina, sulle colonne di «Corriere della Sera», «la Repubblica», «La Stampa» e «Il Fatto Quotidiano» è comparso contemporaneamente una sorta di scoop a testate quasi unificate. Quei quotidiani hanno dato notizia che sono state riaperte le indagini proprio sul sequestro e sull’omicidio di Cristina Mazzotti e che gli indagati sono Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Talia e Antonio Romeo (cognato di Calabrò). Viste le modalità del curioso scoop in sincrono, non è difficile comprendere quale sia stata la fonte. Anzi, è molto facile, per non dire certo. Quei giornali – e anche tutti gli altri che l’hanno rilanciata – hanno informato i lettori che l’indagine, a quasi cinquant’anni dall’uccisione di Cristina Mazzotti, avvenuta con modalità abominevoli, è stata riaperta a seguito di un mio esposto indirizzato alla Procura della Repubblica di Milano.

Effettivamente, il 2 novembre 2021 avevo depositato un esposto sull’omicidio Mazzotti al palazzo di giustizia di Milano. Nel divulgare la notizia, tuttavia, quasi tutti i giornalisti hanno dimenticato che le informazioni sulle quali i pubblici ministeri milanesi stanno procedendo erano contenute, tutte, nel capitolo de «I soldi della P2» dedicato alla ragazza diciottenne rapita una notte d’estate di quarantasette anni fa mentre rientrava a casa a Eupilio, in provincia di Como, in compagnia di due amici. Lo hanno ricordato solo – e qui va loro riconosciuto il merito – Giuseppe Legato e Monica Serra, su «La Stampa».

Nel libro avevamo raccontato come la Squadra Mobile di Como nel 2006 avesse scoperto che un’impronta digitale rinvenuta al tempo sull’auto utilizzata per il rapimento di Cristina appartenesse a Demetrio Latella, pluriassassino e plurisequestratore in una carriera mafiosa fatta fra Lombardia e Piemonte a cavallo fra criminalità organizzata siciliana e ‘Ndrangheta (da moltissimi anni a piede libero, nonostante sia un ergastolano non pentito, grazie alla liberazione condizionale incredibilmente concessagli). Avevamo raccontato anche come le indagini, riaperte a Torino, fossero finite a Milano per competenza territoriale. E avevamo raccontato come a Milano, su richiesta del pm Marcello Tatangelo, il gip Gianfranco Criscione il 19 dicembre 2011, con un provvedimento fatto con lo stampone, avesse archiviato il procedimento per prescrizione dei reati, determinata mediante la concessione di circostanze attenuanti agli indagati. È bene che i lettori sappiano che le circostanze attenuanti per far prescrivere un reato in fase di indagini preliminari è un monstrum giuridico, se solo si presta attenzione all’art. 112 della nostra tanto inutilmente decantata Costituzione: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Ma così fu.

Allora, quando, il 7 ottobre 2021, «I soldi della P2» arrivò nelle librerie per i tipi di Paper First, la casa editrice de «Il Fatto Quotidiano», con la pubblicizzazione di ulteriori elementi di prova che sull’omicidio Mazzotti erano stati trascurati dalla magistratura, fu per me doveroso depositare un esposto, riportante il contenuto di quel capitolo del libro, alla Procura di Milano, che pure aveva avuto contezza del nostro volume.

Ieri, la notizia degli sviluppi dell’indagine riaperta in conseguenza di quell’esposto, che testimonia come abbia un senso impegnarsi, anche quasi cinquant’anni dopo, nella ricerca della verità su certi delitti rimasti in parte o totalmente impuniti.

E che testimonia, in fondo, che anche la pubblicazione di un libro può essere importante non solo per la consapevolezza diffusa ma perfino per la giustizia, se ci si attiva perché non ci sia una schizofrenica dissociazione fra la realtà conoscibile e conosciuta in società e la realtà ufficializzata nelle sedi giudiziarie.

Forse avremo contribuito a dare un altro po’ di giustizia alla memoria della povera Cristina Mazzotti. Non è poco.

Fabio Repici