30 Novembre 2022 Giudiziaria

“Sistema Siracusa”: Corruzione di giudici, per il manager Bigotti processo da rifare: la Cassazione annulla la condanna della Corte d’Appello di Messina

I giudici della Sesta sezione della Corte di Cassazione (presidente Giorgio Fidelbo) hanno annullato la condanna decisa dalla Corte d'Appello di Messina il 5 ottobre dell'anno scorso a carico del manager pinerolese Ezio Bigotti. Una pena di 6 anni e 8 mesi, per corruzione in atti giudiziari e falso: imputazioni che avevano pure portato agli arresti domiciliari il noto uomo d'affari pinerolese, residente a S. Pietro Val Lemina in una splendida villa d'epoca. La Suprema Corte oggi ha disposto l'annullamento della condanna con rinvio ad altra Corte d'Appello, che potrebbe essere Reggio Calabria. "Siamo veramente soddisfatti", commenta il difensore, avv. Cesare Placanica che aveva sempre rimarcato "la carenza degli elementi probatori".

La condanna di primo grado a Messina del 14 luglio 2020.

Erano state cinque le condanne per uno dei tronconi d'inchiesta scaturiti dall'operazione "Sistema Siracusa", condotta dalla procura di Messina. La sentenza del 14 luglio 2020, di primo grado, è della prima sezione penale del tribunale di Messina, che ha condannato l'imprenditore piemontese Ezio Bigotti, ex manager del gruppo Sti, a sette anni e sei mesi.

Vennero condannati anche Vincenzo Ripoli a sei anni e nove mesi, Francesco Perricone a sei anni e Cesare Pisello a quattro anni. Infine, per Mauro Calafiore, due anni con il beneficio della pena sospesa. Il tribunale aveva sostanzialmente accolto le richieste formulate dai pubblici ministeri Antonio Carchietti e Antonella Fradà.

Al centro del processo per corruzione in atti giudiziari e falso commesso da pubblico ufficiale, l'operazione  della Guardia di finanza scattata nel febbraio 2019, che coinvolse l'imprenditore, alcuni consulenti e commercialisti. Il procedimento è un filone dell'inchiesta condotta dalla procura di Messina sul "Sistema Siracusa" che a suo tempo portò ad accendere i riflettori su un "comitato di affari", secondo l'accusa, capace di condizionare le indagini. Nell'inchiesta, anche il coinvolgimento dell'ex magistrato Giancarlo Longo. Successivamente le dichiarazioni rese  ai magistrati dai legali Pietro Amara e Giuseppe Calafiore  portarono a ulteriori sviluppi.

L’arresto del 22 febbraio 2019.

I finanzieri del Comando Provinciale di Messina eseguirono il 22 febbraio del 2019 due provvedimenti di arresti domiciliari nei confronti di Ezio Bigotti, imprenditore piemontese, presidente del gruppo STI aggiudicatario di numerose commesse della Centrale acquisti del Tesoro (Consip) e di Massimo Gaboardi, ex tecnico petrolifero Eni. Erano accusati di corruzione in atti giudiziari e falso ideologico commesso da pubblico ufficiale.

L’imprenditore «aiutato»

Il procedimento è legato all’inchiesta della Procura di Messina, guidata da Maurizio de Lucia, sul cosiddetto «Sistema Siracusa» che, a febbraio del 2018, ha portato all’arresto di 13 persone accusate di far parte di un «comitato di affari» capace di condizionare indagini e procedimenti giudiziari al Consiglio di Stato e al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana. L’indagine coinvolse, oltre all’ex pm di Siracusa Giancarlo Longo, gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore che da mesi collaborano coi magistrati. L’inchiesta a carico di Bigotti ha ricostruito una serie di illeciti commessi dai due avvocati con la complicità dell’ex pm Longo e di alcuni consulenti della Procura di Siracusa nominati dal magistrato per favorire l’imprenditore piemontese nell’ambito degli accertamenti che venivano svolti su imprese a lui riconducibili dalle Procure di Torino, Roma e Siracusa. Bigotti sarebbe stato «aiutato» anche in sede tributaria all’esito della richiesta di voluntary disclosure avanzata da una società del suo gruppo in relazione ad accertamenti dell’Agenzia delle Entrate. L’inchiesta ha anche fatto luce su una complessa operazione giudiziaria pianificata dall’avvocato Amara, e realizzatasi grazie alla complicità di Longo, finalizzata ad ostacolare un’indagine svolta dalla Procura di Milano nei confronti degli ex vertici dell’Eni. Le Fiamme Gialle stanno eseguendo perquisizioni nei confronti degli indagati nelle province di Roma, Milano e Torino.

La «mazzetta» da 20mila euro

Grazie all'intervento dell'ex pm di Siracusa Giancarlo Longo, già arrestato per corruzione, Ezio Bigotti avrebbe ottenuto l’archiviazione di un’indagine per reati tributari aperta a suo carico. L’inchiesta, inizialmente nata a Torino, venne prima spostata a Roma e poi a Siracusa. A raccontare la vicenda ai pm messinesi titolari del procedimento sono stati gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore che, dopo essere stati arrestati nell'ambito di una indagine che ha svelato un comitato di affari che pilotava le indagini alla procura di Siracusa con la complicità di Longo, stanno collaborando con gli inquirenti. I due legali hanno, con le loro rivelazioni, consentito di svelare una serie di corruzioni giudiziarie al Consiglio di Stato e al Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia. L’avvocato Amara avrebbe comunicato a Longo che il fascicolo stava arrivando al suo ufficio. I due avrebbero concordato la nomina di consulenti ad hoc che avrebbero «aiutato» ,con perizie di favore, il magistrato ad archiviare l'indagine. Bigotti, ex titolare del gruppo STI e legale rappresentante della Exitone, era stato presentato da Amara a Calafiore come uno dei suoi migliori clienti. Secondo un metodo consolidato i legali si erano messi a disposizione dell'imprenditore per «sistemare» le inchieste a suo carico. Calafiore ha raccontato ai pm che per la vicenda Bigotti aveva ricevuto da Amara 20mila euro da dare al pm Longo in quattro mazzette da 5mila euro con banconote da cinquanta euro. L'ex magistrato, che nel frattempo ha patteggiato una condanna a 5 anni per corruzione, avrebbe ritirato il denaro, messo in una busta, nel suo bagno privato in Procura.

Assolto a Torino

Ezio Bigotti era stato processato a Torino e assolto dall’accusa di millantato credito . La sentenza di primo grado era stata confermata dalla Corte di Appello il 27 marzo 2018. La vicenda risaliva al 2015 ed era legata a un appalto per una infrastruttura, il cosiddetto passante ferroviario di Corso Grosseto nel capoluogo piemontese. Nell’ambito di quell’indagine emerse un’ipotesi di frode fiscale a carico dell’imprenditore; gli atti furono trasmessi per competenza territoriale alla Procura di Siracusa dove, dopo il conferimento di una consulenza contabile, un pubblico ministero chiese l’archiviazione.