”Il processo non è un tema di storia”. Nelle motivazioni della Cassazione i motivi dell’assoluzione degli ex investigatori del Ros Mori, Subranni, De Donno e il proscioglimento di Marcello Dell’Utri
I processi non si fanno con «un approccio storiografico» ma rimanendo aderenti «ai fatti oggetto di imputazione» e nel «rigoroso rispetto» della Costituzione e del codice di rito. Con queste motivazioni la Cassazione - nel verdetto 45505 di circa un centinaio di pagine, depositato ieri dalla Sesta sezione penale e relativo all’udienza svoltasi lo scorso 27 aprile - spiega perché ha definitivamente assolto, con la formula più ampia del “non aver commesso il fatto”, gli ex investigatori del Ros (Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno), e ha confermato il proscioglimento dell’ex parlamentare Marcello Dell’Utri e riconosciuto la prescrizione del tentativo di minaccia ai governi Amato e Ciampi per il capomafia Leoluca Bagarella e per il medico mafioso Antonino Cinà, ritenuto vicino a Totò Riina.
Ad avviso degli “ermellini”, «l’argomento del “nessun altro avrebbe potuto” si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo».
Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito dell’appello - convinti della tesi che nella stagione delle stragi ci fu una trattativa tra Stato e mafia per togliere il carcere duro in cambio del ritorno alla pace - hanno sbagliato a ritenere «che solo Mori potesse aver rivelato l’informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all’interno di Cosa Nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota» al ministro della giustizia Giovanni Conso e «che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo» di Mori. «E che – si legge ancora nella motivazione – non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi».
Sul punto, gli “ermellini” rilevano che questa informazione «era acquisita per lo meno in qualificati ambienti investigativi». «Questo dato - segnala il verdetto - emergerebbe dalla nota dello Sco del 12 agosto 1993, a firma Manganelli, relativa a una “profonda spaccatura” negli esponenti di maggior spicco di Cosa Nostra e dalla nota della Dia del 10 agosto 1993, a firma De Gennaro, in ordine all’esistenza, secondo le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, di un profondo contrasto tra mafia stragista ed un’altra, invece, pacifista e quasi rassegnata».
Tale spaccatura, secondo quanto sostenuto anche dalle difese, aggiunge il verdetto, «sarebbe, peraltro, risultata dalle dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica in dibattimento e dalle dichiarazioni di Paolo Borsellino in una intervista del 3 luglio 1993».
Per la Cassazione, «fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza» emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 23 settembre 2021 «e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico».
«Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l’accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell’imputazione e deve condotto - conclude la Suprema Corte - nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell’oltre ragionevole dubbio. Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio».